Come zia Agata – un racconto di Benedetta Bindi
Avevo una zia, si chiamava Agata. Era mora, magra, mi amava e adorava i mirtilli. Ci vedevamo in estate, sempre. È andata avanti così per vent’anni, fino a quando non ho iniziato a viaggiare da sola. Non era sposata, era tifosa del Pisa, rideva molto, mi abbracciava ogni tanto, piangeva solo se perdeva la sua squadra di calcio.
Di lei ricordo il suo divano consumato. Aveva stampati tanti girasoli; la stoffa era lisa sui braccioli, per questo ci aveva applicato dei centrini fatti all’uncinetto. Se li spostavo con la mano, si arrabbiava moltissimo, ma solo se c’era mio padre. Non voleva fargli vedere quanto fosse rovinato il divano, sapeva che avrebbero litigato per questo. Solo più tardi ho saputo che lui conosceva benissimo il suo stato.
Un giorno, mentre eravamo insieme a pescare e lei era morta da poco più di un mese, lui – con le lacrime agli occhi – mi disse:
“Sarah, ogni oggetto del salotto di zia è rimasto uguale per anni, dal lontano 13 giugno dell’82, quando il Pisa è andato in Serie A. Lei era scaramantica, voleva che tutto rimanesse immutato come quel giorno! Quel divano puzzava e cadeva a pezzi, nei braccioli c’erano i buchi! Io la trovavo una pazzia, abbiamo discusso spesso per questo, e per tante altre cose. Le volevo bene, ma era parecchio folle! Mi manca la sua follia.”
L’unica volta che ho visto mio padre profondamente commosso è stato quel giorno. Io sapevo che mia zia era “strana”, l’avevo capito fin da piccola.
Primo, perché le donne che conoscevo non fischiavano: lei sì. Non portavano sempre i bermuda d’estate: lei sì. Non bevevano birra dalla bottiglia: lei sì. Non avrebbero mai appeso con due chiodi al muro la sciarpa della propria squadra del cuore sopra il letto: lei lo faceva.
Forse proprio per questo l’amavo da morire: perché era diversa.
Ricordo che mia nonna aveva una teca con tante porcellane e oggetti d’argento. Zia ne aveva una uguale, ma all’interno c’erano cose senza valore: una maglietta, una bottiglietta di aranciata amara, un pacchetto di sigarette vuoto, un fermaglio celeste, uno stecco di ghiacciolo e delle infradito di gomma gialle.
Tutti oggetti con cui era entrata in contatto nei novanta minuti in cui la sua squadra era salita in Serie A.
Bisogna essere piuttosto bizzarri per fare una cosa del genere!
Quante volte avrei voluto prendere uno dei suoi “cimeli”! Proprio perché proibiti, avevano su di me un’attrazione fortissima. Li guardavo a lungo ogni volta che andavo a casa sua. Attendevo con trepidazione il mese di giugno, perché passavo del tempo con lei. I miei lavoravano fino a fine luglio.
Noi vivevamo a Perugia, così mi lasciavano dalla zia a Pisa. Quasi ogni pomeriggio mi portava al mare.
Aveva una cartoleria in pieno centro, ma nel pomeriggio la sua commessa, Gloria, prendeva il suo posto. Era piccolo il suo negozio, ma ci trovavi di tutto: sembrava la borsa di Mary Poppins. Al mattino, dietro il bancone, disegnavo con tutti i colori che volevo, mentre lei lavorava; nel pomeriggio venivo viziata all’inverosimile. Tra gelati e pedalò, mi godevo l’estate. Poi ad agosto i miei mi portavano in montagna, dove ero obbligata a fare lunghe passeggiate, a non urlare e a stare in silenzio a guardare i tramonti sulle montagne, mentre io sognavo il mare.
Quando riguardo le foto delle mie estati al mare, provo sempre una certa emozione. Sono stata terribilmente felice.
Zia Agata aveva un modo di affrontare la vita che rendeva bella ogni cosa. Era solare, tranne quando parlava di calcio. Spesso, sotto l’ombrellone, discuteva con i papà delle mie amiche, sempre a causa del pallone. Si sbracciava, alzava la voce. Una volta, con un tipo che tifava Livorno, le vidi la vena del collo gonfiarsi e le guance farsi rosse.
Per fortuna Paola, una signora che aveva il negozio di abbigliamento vicino alla cartoleria, la prese sotto braccio e la portò a fare una passeggiata sulla spiaggia. Io temetti che potesse fare come la mia gatta con le lucertole, e saltargli addosso.
Mio padre, invece, è sempre stato un uomo molto calmo e razionale, poco incline al riso.
Da piccola non mi sembrava possibile che figli nati dagli stessi genitori potessero essere così diversi.
Solo crescendo ho capito che fratelli e sorelle spesso hanno identità molto diverse, se non opposte.
Ora che sono una donna, mi sento tanto simile a mia zia, e molti che l’hanno conosciuta me lo dicono spesso.
Ho lo stesso modo di commuovermi quando la mia squadra del cuore, il Pisa ovviamente, vince, o qualcosa mi emoziona: sento le lacrime invadermi gli occhi, ma rimanere agli angoli per non farsi notare.
Come lei alzo la voce se pungolata, come lei conservo oggetti dei momenti in cui sono stata davvero felice. Io non ho una vetrinetta di vetro, ma una scatola di velluto rosso, che era appartenuta al suo negozio. Lì ho messo di tutto: sciarpe, lucidalabbra, gioielli, gomme profumate, fotografie, elastici per capelli, candele. Avrei voluto metterci anche le mie risate, perché quando si è molto felici quelle ci sono sempre! Però non le dimentico: le vado a ripescare quando sono triste.
Mia zia è stata la prima a dirmi che avevamo tante cose in comune, come il piacere per la scrittura.
Quando le ho letto un mio diario, uno dei tanti che custodivo sulla mensola della mia camera, mi ha abbracciata forte e mi ha detto che io, a differenza sua, avevo un vero e proprio dono, che passava dal cervello alle mani per farsi parola.
Quando me l’ha detto, ho avuto le vertigini: ero emozionatissima, come mai prima.
Quando ho firmato il mio primo contratto per scrivere una sceneggiatura, ho ripensato alle sue parole. In quel momento ho capito che la scrittura sarebbe stata il mio mestiere, che avrebbe preso tutto lo spazio, e che non avrei avuto più tempo per il resto. Poi le cose sono andate diversamente, perché nella mia vita sono entrati un marito e due figli.
A loro, che sono adolescenti, quando partono per qualche viaggio con la scuola o la loro squadra di pallavolo, ripeto le parole che mia zia mi diceva dopo i quattordici anni, salutandomi a fine luglio:
“Proteggetevi, non fumate, non bevete, non dite cattiverie, ma raccogliete un po’ di piacere. Il piacere è dappertutto, e pregate. Questo non lo dimenticate mai!”
Mia zia mi ha anche insegnato a stendere i panni. Quando lo faceva, fischiettava come se avesse ingoiato un uccellino con tutta l’orchestra: un suono acuto e melodioso che non sono mai riuscita a imitare.
Zia Agata mi ha insegnato una cosa unica però: a sognare, ma senza fare dei miei sogni dei padroni, e a costringere il mio cuore a sorreggermi anche quando è esausto, e a godere di ogni minuto della vita.
Grazie, zia.
Ricordo tutto di te, oggi che è il tuo compleanno, tanti auguri.
