Il tema – un racconto di Benedetta Bindi
Che giornata! Mi ero alzato dal letto con un mal di testa tremendo: a casa di Claudio avevo bevuto troppo per festeggiare il suo compleanno.
Quarant’anni da scapolo: un evento straordinario, per noi già sposati da anni, con uno o più figli sulle spalle!
Lui è l’unico del nostro gruppo ad aver scelto di non mettersi la fede al dito.
È il più giovane dei sette “maschiacci” che ogni giovedì sera si incontrano non per giocare a calcetto, ma per il nostro “caffè letterario”. Luca, l’ingegnere, ha una sala hobby molto grande: è lì che leggiamo articoli, passi di libri che ci hanno colpito, poesie, fino a tarda notte. Le mogli ci lasciano fare. Sanno dove siamo e, soprattutto, con chi siamo.
Insomma, l’altra mattina ero in sala professori, stropicciato come uno straccio troppo usato, e ho cominciato a correggere i temi dei ragazzi dell’ultimo anno, prima della lezione delle dieci con la terza B. Erano tutti piuttosto soddisfacenti, ma niente di memorabile… fino a quando non sono arrivato a una vera perla.
Che sconcerto quando ho visto il nome alla fine del testo: Lorenzo Poggioli.
Forse voleva sorprendermi, perché non aveva firmato all’inizio. Non avevo associato quelle parole al ragazzo tatuato, con due orecchini al lobo sinistro. Lo sportivo svogliato mi aveva spiazzato: non aveva dormito sul banco come al suo solito! E io che pensavo fosse stata Laura – la migliore della classe, la mia allieva prediletta – l’autrice di tante belle riflessioni. Lorenzo esponeva concetti che andavano ben oltre le mie aspettative. Ho fotografato il suo tema. Giovedì sera ho letto alcuni brani ai miei amici, al nostro incontro del circolo letterario.
Ho capito anche i miei limiti. Ho sempre giudicato male tatuaggi e orecchini, li ho sempre associati ad allievi meno meticolosi, più superficiali.
È vero: a volte mi sono trovato ad essere un ultraconservatore, e questo tema mi ha fatto capire che dovevo cambiare atteggiamento.
Non devo mettere muri: il mondo ne sta già costruendo troppi.
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Titolo del tema: “Di cosa hai paura?”
Mi spaventa che si possa arrivare alla fine della democrazia.
Ogni giorno, spesso.
Ogni volta che ascolto il telegiornale a cena con i miei genitori, o quando leggo articoli sui social, sento un senso di inquietudine che mi attanaglia. Poi mi riprendo e penso che ce la faremo, che riusciremo a far girare la ruota in senso contrario. O almeno, voglio sperarlo.
Potrei leggere solo articoli sulla Roma, e guardare belle ragazze su Instagram: sarebbe più leggero.
È quello che fa Marco, il mio compagno di banco: lui vive meglio di me, invece di arrovellarsi il cervello a pensare ai paradisi degli ultracapitalisti, dove non esiste la democrazia e il controllo è in mano ai più ricchi. Trump è stato eletto con il programma “Prima gli Stati Uniti”, e sostiene l’idea di territori autonomi, governati da miliardari. L’idea che alcuni Paesi si trasformino in bunker armati, dove persone indesiderate vengano brutalmente espulse o incarcerate, e in cui il potere si appropri con la forza di terre e risorse, mi fa paura. Molta. L’altro giorno ho visto la foto di Kristi Noem, segretaria della sicurezza americana, a cavallo lungo il confine tra Stati Uniti e Messico, armata di mitragliatrice mentre arresta immigrati in Arizona.
Stare in silenzio di fronte a tutto questo, per me e per alcuni miei amici, significa tradire i doveri fondamentali verso il prossimo, verso i figli che un giorno forse avremo, verso qualsiasi forma di vita con cui condividiamo il pianeta.
Ci sono potenti nel mondo che si stanno abbandonando ad allucinazioni egoistiche.
Io ho creato un piccolo movimento: ora siamo solo in quattrocento ragazzi.
È spirituale, perché preghiamo molto, ma anche politico, perché proponiamo idee per il futuro.
Vogliamo lottare per mantenere questo pianeta miracoloso, unico.
Non sogniamo Marte.
Non sogniamo un futuro in cui un piccolo gruppo di persone e robot sopravvivono su due pianeti. Mi rattrista quando alcuni leader politici negano o minimizzano il cambiamento climatico. Provo rabbia.
Per questo, con il nostro movimento, agiamo in maniera pacifica, informando i nostri coetanei con interviste, articoli, cercando di contrastare tutta la cattiva disinformazione.
Dobbiamo anche cambiare la narrazione apocalittica, proponendo una storia migliore: una storia su come vivere senza lasciare nessuno indietro.
Non bisogna parlare di supremazia, separazione, ma di appartenenza.
Non di fuggire su pianeti inabitati, ma di restare qui, uniti nonostante le differenze, con lo scopo di creare un mondo migliore.
Il nostro movimento si chiama: “Fedeli alla Terra”.
Ci sono parole che scriviamo in aule scolastiche, nei bar, in metro, nelle serate tra amici, o in solitudine nelle nostre camere. Ma sono quelle parole, quelle domande radicali – di chi ha ancora paura, e proprio per questo ha il coraggio di parlare – che costruiscono nuovi mondi.
La speranza non è un lusso, è una forma di resistenza.
