La cosa – un racconto di Benedetta Bindi
Faceva freddo, anche se eravamo ai primi di settembre.
Il cielo era nuvoloso, tirava vento, e sul marciapiede fuori casa degli zii sbattevo i piedi per riscaldarmi, mentre aspettavo i miei genitori.
Non ci vedevamo da quattro mesi.
Non volevo indossare il maglione, nonostante il freddo: ci tenevo a farmi trovare con la camicia celeste ben stirata. Sapevo che, così vestito, sarei piaciuto a mia madre.
Mi avevano lasciato nella villetta degli zii al mare, appena finita la scuola, con la scusa che, per motivi di lavoro, quell’estate non avevano ferie.
La sera prima del loro arrivo, zia Aurora – che mi aveva viziato per tutta l’estate – aveva riempito la vasca di sali profumati e mi aveva lavato i capelli con lo shampoo alla camomilla, perché mi diceva sempre che dava luce alle mie ciocche bionde schiarite dal sole.
La notte non avevo chiuso occhio, tanto ero emozionato. Mi erano mancati i miei, anche se mi ero divertito molto al mare, e mi ero fatto tre nuovi amici.
Mi rigiravo nel letto guardando la finestra: i miei desideri erano tanti e mi si accavallavano nella mente. Uno era più grosso degli altri: diventare un pilota di aerei.
Lo pensavo anche mentre aspettavo di riabbracciare la mamma, in quella mattina in cui sembrava che l’autunno fosse già scoppiato.
Vestito con dei bermuda blu, la camicia e le scarpe da ginnastica nuove (regalo dello zio), sognavo un bel posto nel mondo degli adulti, al quale volevo accedere con trepidazione, per fare in modo che i miei fossero orgogliosi di me.
Le nuvole si addensavano sempre di più. Osservandole, mi convincevo che un giorno ci sarei entrato dentro: quando sarei diventato un pilota!
Non solo sarei volato nel cielo a mio piacimento, ma avrei anche scritto un libro, come Antoine de Saint-Exupéry, l’autore del Piccolo Principe. Un libro che avrebbe letto il mondo intero.
I miei pensieri di un futuro glorioso furono interrotti dal suono di un clacson: i miei genitori erano arrivati.
Vidi mamma scendere dall’auto, ma invece di venire ad abbracciarmi, andò ad aprire il sedile posteriore, dal quale estrasse una piccola creatura che strillava come le capre quando le tosano: era mia sorella.
Papà, sorridente, mi disse: «Guarda un po’ che regalo abbiamo per te».
La zia quasi piangeva per l’emozione e mi guardava, pensando, come loro, che essere figlio unico fosse stato un peso troppo grande per me. Le gambe mi si fecero deboli e mi mancò il respiro.
Scappai in casa e mi chiusi in quella che era diventata la mia stanza.
I giorni seguenti non furono per nulla facili.
Tutti lodavano quella piccola creatura e volevano convincermi che anche la mia vita, con lei a casa, sarebbe stata più bella di prima.
Avevo undici anni.
L’aereo che sognavo un giorno di guidare non era ancora decollato, che già era precipitato con tutti i miei sogni dentro.
Volevo un fratellino o una sorellina quando avevo cinque o sei anni, poi non avevo più chiesto nulla ai miei. Erano rimasti ancorati a un mio sogno vecchio!
Li detestavo! Mi mancava l’aria, mi sentivo soffocare, una sensazione bruttissima.
Mi portarono da più di un medico, e tutti dissero: «Disturbo alle vie respiratorie. Con l’uso di un broncodilatatore durante le crisi asmatiche, suo figlio può continuare la solita vita».
Avevano capito il sintomo, ma nessuno la causa.
Bisogna dare la parola a un figlio, per rendere possibile il passaggio dall’uno al due. Soprattutto quando sei stato per tanti anni l’unico essere della casa, per il quale i tuoi genitori facevano a gara per soddisfare ogni desiderio. Ero arrabbiato con loro, soprattutto per non avermi mai detto nulla, e con me stesso: come potevo essere stato così tonto?
Prima della mia partenza non avevo notato la pancia di mia madre?
Forse perché lei è sempre stata parecchio morbida, o forse perché io ero distratto da Francesca, la mia compagna di banco, che ogni giorno assomigliava sempre più a una donna. E la sognavo di notte.
Mi sentivo grande, anche se avevo solo undici anni. Non abbracciavo più mia madre come facevo da piccolo.
«Se l’avessi fatto, sicuramente l’avrei notato che era incinta», mi dicevo.
«Se l’avessi ancora riempita di baci, lei non avrebbe fatto la cosa!»
Così chiamavo Virginia, mia sorella, tanto la detestavo.
Lei cresceva felice, io con un erogatore nello zaino o in tasca, perché spesso andavo in apnea.
Come poteva essere diversamente?
Per lungo tempo ho pensato di soffocarla nella notte, quando i miei erano a letto. Poi, un giorno, quando aveva cinque anni ed io sedici, le ho salvato la vita. Lei pattinava sul lungo vialetto del mio giardino, nella casa al mare. Io ero intento a gonfiare la ruota della bici, e la sorvegliavo con la coda dell’occhio, come mi aveva detto di fare mio padre. Lui stava armeggiando con l’olio della macchina, o non ricordo quale altro problema, e aveva lasciato il cancello aperto. Virginia, alla vista di un gattino, era corsa in strada e stava attraversando per prenderlo. Una serie di coincidenze sfortunate: papà era riverso sul cofano dell’auto, un motociclista passava a tutta velocità come fosse su una pista da corsa, la mia pompa della bici non funzionava, ed io la maledicevo.
Però non so se abbiamo tutti un destino, o se siamo solo foglie portate dal vento.
So solo che ho alzato gli occhi, ho visto mia sorella scendere dal marciapiede, ho sentito il rumore di una moto e ho corso più veloce che potevo. Il motociclista, per la frenata improvvisa, è scivolato, riportando solo una lussazione alla spalla e qualche escoriazione. Gli è andata bene, visto che correva a settanta all’ora. Due vicini, e mio padre da lontano, mi hanno visto spuntare più veloce della luce, come fossi Superman: mi sono gettato in strada, ho sollevato la piccola e l’ho messa in salvo. Per un secondo, non sono stato travolto dal motociclista.
Quel giorno sono diventato l’eroe di via delle Salvie.
Il ragazzino secco e ombroso aveva salvato la sorellina. Mi fecero anche un piccolo trafiletto sul giornale locale. Il giorno dopo, in paese, ricevetti tante pacche sulla spalla, tante domande e strette di mano. L’asma, dopo il mio gesto coraggioso, è sparita d’improvviso, com’era arrivata. Io ho salvato la vita alla cosa, senza pensarci. E tutta quella rabbia verso di lei, d’improvviso, è sparita. Per non tornare mai più.
Ho capito che l’amore è bizzarro: entra ed esce da noi senza chiedere scusa né permesso, come le nuvole nelle quali, adesso, il mio drone deve entrare per terminare le riprese del documentario che sto facendo.
Non sono diventato un pilota di aerei. Cioè, in un certo qual modo… sì, però stando a terra!
Virginia, mia sorella, invece scrive soggetti, sceneggiature, alle quali io, con le mie riprese, do vita. È una donna molto intelligente, allegra, ed è una chiacchierona, a differenza di me, che ho sempre mantenuto la mia aria un po’ ombrosa. Lei ride ancora, quando i miei genitori le ricordano che ho sognato spesso di soffocarla.
Nel nostro ufficio ha incorniciato il trafiletto del giornale, nel quale sono chiamato l’eroe di via delle Salvie.
E quando qualcuno le chiede cosa sia, lei con gli occhi che le brillano racconta la storia.
