cultura

La carta da gioco – un racconto di Benedetta Bindi

La scorsa estate mi trovavo in treno, diretta a Bari, per i novant’anni di zia Celeste. Ero partita da sola, senza mio marito e mio figlio. Ero felice, perché sapevo che mi sarei goduta tre giorni di zie, cugine e vecchie amiche del liceo.

Fortunatamente, nella mia carrozza, appena mi sono seduta, ho notato che eravamo pochi passeggeri. Ne ero felice: pensavo così di poter leggere in tutta tranquillità il mio nuovo romanzo giallo e rilassarmi dopo una settimana di lavoro faticosa.

Poco dopo, però, una signora anziana, con una nipotina di poco più di sei anni, si è seduta davanti a me.

La piccola era particolarmente vivace, e la donna — che ha cercato per circa un’ora di distrarla con biscotti, un libro sugli animali e un succo di frutta — sembrava ormai a corto di energie…

Poi, con un’aria felice, come di chi ha fatto una grande scoperta, ha detto:

«Anna, ora calmati un poco. Ti prendo le carte che ti ha regalato nonno Umberto, quelle con i disegni. Mi ero dimenticata che le avevamo prese…»

Ha tirato fuori da uno zaino di stoffa gialla un mazzo di carte, dei colori e un quaderno.

La nipote, tutta felice, ha aperto il tavolino, ha scelto con cura una carta e poi ha detto:

«Sììì! Pensavo che, visto che eravamo in ritardo, fossero rimaste nel mobiletto della cucina! Grazie! Dipingerò Monolete! Il mio preferito

E ha sbattuto le mani.

Da quel momento, per due ore, non si è più mossa dal suo foglio.

Io ho letto, ma ogni tanto alzavo lo sguardo: quel torero sulla carta l’aveva incantata.

Una volta finito di colorarlo, l’ha consegnato alla nonna, che, come me, stava leggendo un romanzo.

Era davvero bello il suo disegno, che io sbirciavo con la coda dell’occhio: sembrava disegnato da un adulto.

In un primo momento ho anche pensato che avesse un foglio con sagome stampate da colorare, poi ho visto che invece era un semplice quadernone a quadretti.

L’ha girato verso di me e me l’ha mostrato:

«Ti piace?», mi ha chiesto sorridendo.

Ho risposto che era meraviglioso.

Sua nonna mi ha detto:

«Eh, ha del talento la piccola… Lo riconosce il torero? Era il più forte di tutta la Spagna.»

Io, quasi imbarazzata, ho risposto che non sapevo chi fosse.

E lei ha replicato:

«Non ci credo! Allora devo raccontarle la sua storia.»

Ha posato il suo libro sulle ginocchia, si è tolta gli occhiali e ha iniziato a raccontare:

«Si chiamava Monolete. Sin da bambino sognava di combattere i tori. Ma perché un sogno si realizzi, la vocazione deve essere riconosciuta. Questo avvenne grazie a José Flores Camará, un caro amico del padre di mio marito! Camará assistette per caso a una sua corrida e, vedendolo nell’arena, fu come se vedesse oltre ciò che era in quel momento. Vide ciò che sarebbe potuto diventare. Uccideva i tori con eleganza, come facevano quelli della vecchia scuola. Certo, commetteva errori: faceva mosse inadatte alla sua corporatura, si esponeva troppo, era inesperto. Ma erano dettagli, in confronto al suo potenziale. Peccato che è morto a soli trent’anni per una trasfusione sbagliata, che aveva dovuto fare a causa di una ferita durante una corrida».

Ero affascinata dal modo di parlare della donna. Anche la sua nipotina, che sicuramente aveva già sentito quella storia centinaia di volte, non le toglieva gli occhi di dosso.

Poco dopo mi ha detto che aveva insegnato italiano al liceo per tanti anni, per questo aveva doti oratorie non comuni, e ho pensato subito che i suoi alunni erano stati fortunati. 

Ho fatto molte domande alla signora. Suo marito era spagnolo, emigrato in Italia per fare l’attore, diventato poi giornalista.

Il mio libro giallo ormai giaceva sul tavolino, mentre il nostro scompartimento, dove eravamo stranamente solo noi tre,  si riempiva di parole.

A un certo punto la bambina ha toccato il braccio della nonna per farla tacere, ha preso un’altra carta dal mazzo: c’era disegnato il volto di una donna.

La signora mi ha chiesto se sapevo chi fosse. Mi pareva di conoscerla, ma non ricordavo il nome. Così ho detto:

«L’ho già vista, ma non ricordo dove…»

«Certo che l’avrà vista nei libri! Lei è Gertrude Stein

Mi ha sorriso. Io sono arrossita, e lei ha continuato:

«È stata una grande scrittrice e poetessa statunitense

«Ora ricordo!» ho esclamato, carica di entusiasmo. «Ho visto il suo ritratto, fatto da Picasso, al Metropolitan Museum!»

«Ottimo», ha risposto la donna.

Mi sono sentita felice come una scolaretta durante una lezione.

Poi ha ripreso:

«Visse da mecenate nella Parigi delle avanguardie artistiche, cambiando per sempre il mondo dell’arte e della cultura. Una donna eccezionale. Soprattutto se si pensa che, all’epoca, il mondo della cultura era dominato dagli uomini. Pensi che a scuola faceva errori di ortografia ed era considerata un’alunna poco dotata

Avrei voluto prendere tutte le carte del mazzo e farmi raccontare la storia di ogni personaggio, ma mancavano solo dieci minuti all’arrivo.

La donna ha cominciato a raccogliere le sue cose, poi mi ha detto:

«Gli insegnanti — non tutti, ma molti — non sanno guardare. La scuola oggi ama solo classificare: dislessico, discalculico, iperattivo… come mia nipote. Una bambina di sette anni che disegna meglio di una diciottenne! Cosa importa se non sta ferma? Sta ferma se le dai un pennarello o una matita. Altrimenti si annoia, si agita”.

Mia madre diceva sempre: “È impossibile vedere l’angelo, se prima non ne abbiamo idea.” Io, signora, credo che non sappiamo più vedere generosamente, con attenzione. Vogliamo incasellare tutto, invece di distinguere i tratti, riconoscere le anime

L’ascoltavo rapita. Pensavo a mio figlio Luca, considerato “troppo distratto e nel suo mondo”, mi ripetevano le professoresse.

Le ho detto:

«Sono pienamente d’accordo. Mio figlio è un ragazzino sensibile, poco incline agli sport di gruppo, solitario, ma sempre pronto ad aiutare il prossimo. È una grande dote. Magari, da questo, nascerà anche un lavoro

La signora mi ha sorriso con dolcezza:

«Guardi ognuno di noi ha un’anima che chiede solo di essere vista per ciò che è, non per ciò che gli altri si aspettano. Il nostro compito, come insegnanti, è questo: non mettere gli stessi abiti a tutti».

In quel momento il treno ha rallentato. La voce dell’altoparlante annunciava la stazione di Bari Centrale.

Ci siamo salutate  con un abbraccio spontaneo, mentre la bambina mi porgeva il disegno del torero.

«Tienilo tu», mi ha detto con un sorriso timido. «Così ti ricordi di Monolete

L’ho  preso, ed ora è incorniciato nel mio studio.

 La conversazione con quella donna, è stata  una piccola lezione di umanità, di bellezza, un dono del cielo! 

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