editorialigli altri siamo noi

La ricchezza di narrare

Non so bene da dove cominciare a condividere con voi la ricchezza dello strumento narrazione…un po’ alla rinfusa, butto qui suggestioni che provengono da libri, storie, vite, soprattutto dalla mia esperienza…solo con questa ultima accezione posso stare lontano dai banalismi.

Narrare è una esigenza per gli uomini. Fa parte di noi. Ci afferma anche quando non siamo guardati dall’altro. Ci distingue anche quando sembra che tutto vada verso l’omologazione. Ci aiuta a sostare prima ed ad andare oltre poi.

In odine cronologico: chi non l’ha ancora fatto deve organizzare una visita al sito archeologico dei Camuni in Val Camonica (BG) perché si parte da lì. Nell’età del Ferro, i nostri antenati vivevano non oltre 30 anni, si coprivano di pelli, provavano a coltivare ma ancora cacciavano…eppure nella fatica quotidiana avevano già capito la differenza tra sopravvivere e vivere: sopravvivere è apnea, è guardare la terra, vivere è sperare e guardare il cielo e quindi per non limitarsi a sopravvivere, i nostri super nonni hanno deciso di narrare. Lo hanno fatto sulla roccia. Forse, era troppo forte il bisogno di far sapere il loro passaggio su questa terra e noi oggi parliamo di loro. Forse era troppo forte il desiderio di spiegare come loro ce la stessero facendo e noi oggi leggiamo affascinati le loro giornate dure ma comunitarie.

Un po’ dopo: chi non lo ha mai fatto deve visitare la chiesa romana di San Paolo fuori dalle mura e deve ammirare la fila di medaglioni papali. Perché? Perché la chiesa narra la sua continuità, la sua costanza e così tira sù la sua credibilità stando lontano dall’autoreferenza. E’ tutto lì: i vari capi della chiesa che si sono succeduti senza lasciare buchi, ci hanno messo la faccia e siamo qui a raccontarlo. A narrarlo. Da sempre e per sempre.

Ai nostri giorni: non narriamo più. Prendiamo storie confezionate da altri di facili guadagni e dubbie beneficenze, prendiamo vicende di isole su cui sembra difficile sopravvivere, prendiamo serie televisive lunghe o brevi in cui gli altri si mostrano ma non si raccontano. E poi, nella fretta delle giornate ci rivolgiamo tra noi con domande chiuse tipo “Tutto bene a casa?” oppure “Tutto ok a scuola?” che all’altro lasciano due strade limitatissime di risposta “si” oppure “no”. Imprigionando chi deve rispondere in due sole possibilità. Strette. Strette. Diverso sarebbe porgere domande aperte tipo “Come è stata la tua giornata e come sei stato tu?”. Certo, le domande aperte, se attecchiscono, hanno bisogno di tempo: tempo per essere acciuffate da chi le riceve, tempo perchè le risposte devono essere poi ascoltate. Le risposte andrebbero ascoltate con un bellissimo silenzio attivo: ti lascio libero, mi concentro solo su di te, il mio cellulare non esiste più, ti faccio altre domande per capire se ho capito, ti do dei feedback pieni di amorevolezza perché tu e quello che puoi dirmi siete importanti.

Narrare o meglio accogliere la narrativa dei miei pazienti è un capo saldo della medicina centrata sul paziente, quel tipo di medicina che cerco con il mio gruppo di applicare ogni giorno. Quando i pazienti “dormono” in Terapia Intensiva, lasciamo che a narrare la loro vita, il loro sistema valoriale, le loro affezioni siano i parenti. Questo cura il dolore dei parenti che adorano poter parlare del loro caro. E questo aiuta noi sanitari a prendere decisioni etiche enormi, si pensi alla donazione. Quando ci sono i presupposti per donare, si ricercano le ufficiali volontà donative del paziente (AIDO, Carta Identità). Quando mancano le volontà del paziente, si chiede alla famiglia (ai così detti “aventi diritto”) se autorizzano la donazione. Spesso i famigliari sono in empasse perché non sanno cosa rispondere, hanno paura di sbagliare: il più delle volte, questa paura è dovuta alla confusione di loro che confondono loro stessi e la loro ripsosta con il paziente ricoverato e con la risposta che il paziente avrebbe dato. Tante volte sentiamo “Fosse per me donerei ma con lui non avevo mai parlato di questa evenienza”. Allora, facendo narrare la vita del paziente, investigando quale idea avesse del dono, approfondendo le sue passioni ed il suo modo di intendere il bene, riusciamo a capire meglio chi stiamo curando e cosa vorrebbe dire se ancora potesse parlare. Certo che la Medicina Narrativa non è una scienza esatta (giova ricordare che tutta la Medicina non lo è) ma è pur sempre il metodo migliore nelle nostre mani per conoscere l’uomo steso sul letto e per dare voce al dolore di chi lo ama.

E poi certo, ci sono io, piccola ed indegna ma sempre tesa a far narrare e qualche volta a narrare. Poche settimane fa, grazie ad un corso speciale di comunicazione tenuto da un comunicatore fuori quota per il talento innato, ho scoperto la versione di narrare passando dal E POI al MA POI. Sembra solo semantica, o lessico, invece è altro: se racconto la mia giornata con E POI, metto in fila, senza colore, spesso con noia…da qui la fatica. Se racconto la mia giornata con il MA POI, posso divertirmi di fronte alla sconfitta ed all’errore. In questa ottica, le giornate prendono una svolta inattesa: l’imprevisto diventa sorpresa, la resistenza diventa resilienza. E per chi è arrivato fino a qua, condivido un mio esercizio di narrazione: narrare è salvifico sempre, farlo con il trucco del MA POI lo rende anche più tollerabile.

Venerdì 9 Maggio, mattino, non ho le energie per andare a lavorare, praticamente mi trascino in ospedale dopo tre giorni folli di corsi e notti, sperando che due ginseng bastino ad accendermi…MA POI, quando arrivo in reparto, la mia rianimazione che è anche la mia confort zone, vedo musi lunghi e sento preoccupazione nell’aria: abbiamo una malattia da coprire, la collega dedicata alle urgenze interne dell’ospedale. In  termini tecnici è il turno Met, in realtà è una corsa continua, non si beve e non si pensa nemmeno ad andare in bagno (infatti non si beve apposta) per almeno sei ore di fila…prima sorpresa della giornata: un punto di lavoro da coprire. Mi butto nell’imprevisto, abbraccio la novità perché è da lì che vengono le sorprese più belle, nessuno capisce il mio sorriso MA POI mi offro e tutti tirano un respiro di sollievo (il massimo dei grazie che puoi aspettarti dai rianimatori).

Ok, iniziamo ore 8:00, apro il computer…avrò almeno il tempo di leggere le 85 email tralasciate…no, secondo imprevisto ore 8:05 la prima telefonata sul cicalino “Dottoressa cortesemente potrebbe correre subito in riabilitazione? Abbiamo una crisi comiziale. Presto. E’ cianotico!”. Che una crisi comiziale per qualche secondo provochi cianosi, non mi colpisce…ma che ci siano problemi in un reparto dove le persone vanno a fare palestra…mi sembra inusuale…MA POI via, si corre…

Arrivo ed il paziente è proprio giovane, cavolo: uomo del 1982, crisi brutta, troppo lunga…tutti guardano me e aspettano che io decida: curiamo la crisi MA POI qualcosa mi dice che non è la crisi il vero focus su cui polarizzarmi…il malato ha altro, è troppo grave e allora seguo l’istinto, voliamo in tac…“Dottoressa sicura? Non dovrebbe fare un EEG?”. Prova il più audace degli infermieri. Scelgo di rispondere con l’autenticità “Avete ragione, dovremmo fare un EEG ma metto davanti la tac…temo abbia sanguinato in testa”. La tac è una condanna: inondamento di sangue, ipertensione endocranica, morte sicura nelle successive ore. I nostri cuori sentono la morsa della tristezza MA POI mi ricordo che se non possiamo guarire, possiamo continuare a curare. Riporto Davide in stanza, questo il nome del “mio” ragazzo: controlliamo i parametri, laviamo il corpo, cambiamo le lenzuola, riprendiamo la terapia sintomatica e sembra di aver finito MA POI, penso all’orizzonte donativo.

Ne parlo con chi mi affianca: ripartiamo di nuovo. Nuova corsa contro il tempo con un nuovo obiettivo. Cerchiamo la deposizione delle volontà donative, attiviamo gli amici/colleghi in ospedale per velocizzare la burocrazia e ovviamente attendiamo la famiglia. Il colloquio è difficile, lungo e faticoso: onoro il dolore di quella madre che sta attraversando una sofferenza indicibile. Alla fine, quando mi sembra di aver lasciato tempo e di aver trovato spazio, chiedo se possiamo parlare di donazione. Trovo uno spiraglio piccolo MA POI il pensiero del dono vince sul dolore: Davide dona. Tutto.

Sono quasi le 14, il mio turno si appresta a finire per cui torno in rianimazione: di nuovo musi lunghi perché ci sono i soliti problemi con i trasferimenti, i posti letto, la catena di comando, lo svolgimento del processo…come ore prima sorrido e dico “secondo me per oggi l’imprevisto ci ha portato una sorpresa MA POI poteva davvero andare peggio”

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