cultura

Ce l’ho fatta – un racconto di Benedetta Bindi

Ricordavo ancora il suo passo dinoccolato, la maglia stretta e quei jeans tutti tagliati. Era inginocchiata davanti alla statua di Santa Rita e piangeva, implorandola.

Avvicinandomi, l’avevo fatta alzare. Due persone, sedute nella navata destra della chiesa, la osservavano. I suoi singhiozzi erano troppo forti per passare inosservati.

Le domandai cosa non andasse. Mi rispose solo:

«Tutto, prete.»

E poi, abbracciandomi, si lasciò cadere in un pianto disperato.

Dieci minuti dopo, seduti su due sedie di plastica, nel fresco sotto il pesco del giardino della chiesa, iniziammo a parlare.

Anzi, a dire il vero, lei non aveva voglia di parlare. Ma si era calmata. Così iniziai io, a bassa voce, un piccolo monologo, come per darle tempo:

«Un giorno Giovanni, l’apostolo, vide un cane rabbioso. Aveva vicino un bastone, ma non lo prese. Non scappò. Incrociò le mani e pregò, fermo, lì dov’era. Poco dopo il cane se ne andò. I discepoli gli chiesero perché non fosse fuggito o non avesse tentato di colpire l’animale. E lui rispose: “Se avessi corso, la bestia mi avrebbe inseguito. Se avessi preso il bastone, mi avrebbe attaccato. Ma fermandomi e affidandomi a Dio, ho trovato la calma per affrontare il mio cuore.â€Â»

La guardai bene in volto, senza lacrime. Era bella, giovane, con due grandi occhi celesti, ma troppo tristi per chi aveva il futuro davanti.

Mi stava ascoltando, però, e annuiva con la testa, come se le mie parole fossero le perline giuste da infilare nella sua collana che si chiamava: “vitaâ€.

Le dissi:

«L’esistenza ci mette continuamente davanti alle difficoltà. Vanno e vengono, come le onde del mare. A volte ci troviamo stanchi, tristi, persi. Come te, oggi.»

Ogni tanto le chiedevo se volesse raccontarmi il suo dolore. Ma lei scuoteva la testa.

«Parla tu,» diceva. «Parla tu.»

«Viktor Frankl era uno psicologo. Fu deportato nei campi di concentramento nazisti. Diceva che non erano i più forti a sopravvivere, ma quelli che trovavano un significato per continuare a vivere. Un amore, un figlio, un progetto, un sogno. Lui si aggrappò al pensiero di sua moglie e all’idea di completare i suoi studi. E questo lo tenne in vita. Come ti chiami?»

«Anna,» rispose sottovoce.

«Ecco, Anna… tu hai uno scopo? C’è qualcosa, anche piccolo, che possa aiutarti a scacciare via tutto questo dolore?»

Indicò la sua pancia, e notai un minimo rigonfiamento.

«Voglio essere madre. Ma quel bastardo mi ha lasciata, sta già con un’altra. Io non posso crescere questo figlio da sola… Domani… domani lui non ci sarà più.»

Le presi la mano, senza dire nulla per qualche secondo. Poi le dissi:

«Abbiamo molte più possibilità di vincere se scegliamo la gratitudine, invece della rabbia o della paura. Lo so che ti sembra impossibile adesso. Ma qui, in questa comunità, ci sono tante donne forti, come te. Donne che possono darti una mano. Io posso aiutarti. Possiamo aiutarti. A tenerlo, a crescerlo, a ricominciare.»

Anna non disse nulla. Ma le sue lacrime, stavolta, sembravano un po’ diverse. Meno disperate.

Forse, per la prima volta dopo tanto tempo, un piccolo spazio si era aperto dentro di lei. Uno spiraglio. Un seme.

E io lo so: quando anche solo un seme di speranza viene piantato… la rinascita è già cominciata.

Pensai tanto a lei, pregai per lei.

Sognai di sentirla dire:

«Ce l’ho fatta.»

Ieri è passata da me con Massimo. L’ha chiamato così perché ha detto che, per lei, lui è il massimo.

Non stavo sognando più. Era tutto vero!

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