Chiamare l’ambulanza nel dubbio? La risposta è sempre SÌ. Ecco perché.
Eccola la risposta al mio amico e direttore de Il Centuplo e al suo editoriale che conteneva le seguenti domande: è giusto chiamare un’ambulanza senza avere la certezza che l’altro abbia veramente bisogno? E’ giusto usare le risorse (non infinite) del sistema di emergenza-urgenza senza avere la certezza che la persona soccorsa abbia intenzione di farsi ricoverare o più in generale curare?
La risposta è solo e sempre SI. I motivi sono diversi e più di uno.
Primo, per non incorrere dell’omissione di soccorso la legge dice che “ogni volta in cui si vede un soggetto che sia o che sembri inanimato, si deve attivare la catena dei soccorsi dando l’allarme al NUE112 (Numero Unico Emergenza)”. Anche la legge ha previsto, quando è stata stesa, come a volte sia difficile discriminare tra una situazione e l’altra: uno stato di coma o una semplice lipotimia, una overdose di farmaci o una brutta intossicazione di alcool, una percossa sul cranio oppure un crisi ipoglicemica. Stare nell’incertezza vuol dire accettare una quota di allarme che sovra stima la realtà ma il mondo scientifico preferisce correre il rischio di portare un soccorso inutile piuttosto che saltare un soccorso utile.
Secondo, al di là della legge, esiste un giudice ancora più rigoroso e severo al quale rispondere e rispondere per sempre: la nostra coscienza. Convivere con il dubbio di non aver fatto abbastanza per preservare, aiutare, proteggere è un incubo pesante e insostenibile alla lunga: una vera condanna da evitare, da evitarsi. Per cui per sopravvivere, noi dobbiamo fare ciò che è in nostro potere per poter guardare avanti anche dopo una tragedia, reale o scampata che sia. E guardare avanti, passare oltre è possibile solo se si è fatto abbastanza per provare a incanalare le cose nel verso giusto. Noi la chiamiamo sindrome del Gruviera: dobbiamo cercare di fare centro in tutti i buchi per quanto in nostro potere.
Terzo, in un mondo in cui dilaga l’indifferenza della on-life, prendersi cura di uno sconosciuto, farlo alla presenza dei nostri figli, ribadire il nostro interesse per l’umano anche davanti ad un equipaggio stanco di lavorare in ambulanza, è qualcosa che riafferma la cultura della solidarietà. L’unica cosa che ci salverà dalle brutture del mondo. Prendersi cura, interessarsi all’altro, salvare le relazioni umane è ciò che riempie di significato i gesti, anche quando magari tali gesti non sono tecnicamente perfetti. Ma chissenefrega se l’uomo in strada non stava così male: fondamentale è stato ed è sempre riaffermare lo sguardo di interesse, di conferma, di attenzione mio su di te. Con il termine I cure cerco di salvarti la pelle, con il termine I care invece mi appassiono a te e ti salvo magari dall’abbandono. Diamo il benvenuto al I care.
Quarto, quando non è possibile discernere facilmente la cosa giusta da fare, allora si fa la più ragionevole. Meglio ancora, si fa la più misericordiosa. Da un punto di vista etico, ragionevolezza e misericordia battono la giustizia. E sempre da un punto di vista etico, il nostro sistema sanitario ci permette di curare tutti senza dover scegliere chi escludere.
Quinto motivo per cui nel dubbio, è corretto chiamare i soccorsi, il più importante: quando si attiva il sistema di emergenza non si salva una vita ma si salva una identità cioè si salva il concetto di uomo, anche dell’uomo che vive nel collasso sociale, ai margini, in povertà. Non si salva solo il suo organismo ma si salva appunto la sua identità fatta di ricordi, amarezze, valori. Si prende tutto il pacchetto e lo si protegge, dagli attacchi del freddo e della malattia, della solitudine e della indifferenza. Ogni giorno risulta un bilanciamento quotidiano tra amore ed odio, gioia e dolore, vita e morte. In questo bilanciamento, l’augurio è quello di essere sempre la piuma che sposta verso la cura. Per salvare l’identità dell’altro. Ed anche la nostra, di persone per bene.
Valeria Terzi – Medico rianimatore in auto medica per AREU112 (ex 118)
