Fa caldo? Allora cerchiamo l’ombra e non il lamento
In altre parole: ESTATE.
Ogni cosa oggi sembra diventare un pretesto per lamentarsi. E ogni titolo, sempre più spesso, pare scritto non per informare, ma per impaurire.
Fa caldo? È un’allerta. Piove? È un problema. C’è vento? È già disagio.
Ma viene spontaneo chiederselo: prima, come facevamo? Come abbiamo attraversato decenni di estati roventi senza condizionatori, senza breaking news, senza la sensazione costante di essere vittime del clima?
La verità è che prima la si viveva.
E non faceva paura perché nessuno lo diceva.
Si sudava, sì. Ma si condivideva.
Si cercava l’ombra, non il lamento.
Ci si adattava, si rideva, si rallentava.
L’estate era una stagione vera. Lenta, imperfetta, intensa.
Era fatta di pomeriggi al mare con la sabbia bollente sotto i piedi, di tuffi all’improvviso e asciugamani che sapevano di sole e di sale.
Di granite di mandorla mangiate troppo in fretta, di risate che si allungavano fino a sera.
Di odore di crema solare e braccia bruciate.
Di corse in bicicletta e serate nei paesi, con le luci fioche e la musica lontana.
Di amori estivi nati con uno sguardo e finiti senza mai davvero finire.
Di finestre spalancate nella notte, con il ventilatore che girava lento e le zanzare che cantavano ai nostri sogni.
L’estate non era una minaccia.
Era una sospensione della logica.
Una parentesi in cui il tempo non correva, ma si dilatava.
Oggi rincorriamo il controllo, il comfort, l’allarme.
Ma forse dovremmo solo lasciarci attraversare.
Perché l’estate non si spiega.
L’estate, se hai il coraggio di viverla davvero,
ti resta dentro come un ricordo d’infanzia: caldo, disordinato, eterno.
