Amiche – un racconto di Benedetta Bindi
Stavo sudando mentre passeggiavo per le vie di un piccolo quartiere periferico, a Roma Est.
Ero arrivata con largo anticipo al mio appuntamento, forse perché era da tanto tempo desideravo rivedere la mia amica Raffaella, e temevo che, per un qualsiasi imprevisto – il traffico, una gomma bucata – potessi perdere questa occasione.
Non si può dire che avessimo litigato, ma a causa di Marcello, il mio ex fidanzato, ci eravamo allontanate.
Col tempo ho capito che lei aveva ragione a non sopportare che io non aprissi gli occhi, che non mi accorgessi di stare con un uomo bugiardo!
Ma io mi ostinavo a non voler vedere la realtà.
Come da bambina, quando volevo continuare a credere che fosse Babbo Natale a portarmi i regali, ignorando le compagne di classe che dicevano il contrario.
Sono sempre stata una romantica !
Era bello pensare che quell’uomo grosso, dolce, con la barba bianca, pensasse a me, e mi portasse ciò che gli chiedevo con le mie lettere.
Così come allora, mi sono ostinata a credere in un sogno.
Camminavo riflettendo che un po’ ero cambiata in tutti quegli anni lontana da Raffaella, in meglio.
Non riuscivo a stare ferma, potevo sedermi all’ombra su una panchina, ma ero troppo agitata, mi mancava il respiro.
Per anni, Raffaella è stata il mio mondo. Due ragazze cresciute insieme: medie e liceo, stessa classe, inseparabili.
All’epoca non c’erano i cellulari: ci vedevamo sempre, spesso una dormiva a casa dell’altra, e parlavamo fino a notte fonda.
Lei era l’unica con cui potevo discutere di libri, dell’esistenza di Dio, del senso della vita.
A diciassette anni perse il suo cane, Lucky.
Era cresciuta con lui, non aveva fratelli né sorelle; quel bassotto peloso era per lei una famiglia.
Stette malissimo. Io lo scoprii solo un mese dopo, quando sua madre me lo raccontò, mentre ci stava accompagnando in auto ad una festa.
Raffaella le disse: “Mamma, devi rovinare sempre tutto? Per un minuto non stavo pensando a Lucky”.
Poi durante il tragitto in auto rimase muta, schiacciata dal dolore, ed io triste perché non si era confidata con me.
Lei era così: voleva sempre apparire allegra, forte, non le è mai piaciuto mostrarsi fragile, farsi consolare.
Cammino e sento il sudore colarmi dalla testa, a luglio è normale in città.
Alle diciannove spaccate, sono nel punto esatto che lei mi ha indicato nel messaggio.
L’ho ritrovata su Instagram, dopo che una collega – mi ha detto: “Va bene non avere TikTok, ma almeno Instagram Isabella!”.
Quando ho scaricato l’applicazione, la prima persona che ho cercato è stata lei.
Raffaella ora porta i capelli più corti, ha messo su qualche chilo, ma è ancora bellissima con due occhi grandi e chiari, zigomi alti, e un sorriso luminoso. Ho visto una foto di lei al mare con Giulio, suo marito, sempre secco, l’opposto di lei che è sempre stata morbida. Sono felice che il loro amore resista, ha postato tante foto di Luca, suo figlio. E’ diventato bello, l’ ho lasciato che era un ragazzino timido del Liceo, ora è un uomo.
Mentre aspetto sua madre, penso a tutto il tempo che ho sprecato, e mi domando cosa sia successo davvero tra noi.
È stato solo il mio ex a creare la frattura? Oppure c’era anche un motivo più profondo?
“Che importa ormai”, mi dico, guardando i miei piedi grandi, brutti, che con lo smalto celeste, messo da mia nipote Marica, per far apparire le mie “palanche” se non belle, almeno divertenti.
Finalmente la vedo arrivare la Raffaella, come la chiamava mia nonna: indossa una maglia chiara e una gonna jeans, ha due collane colorate al collo. Cammina come sempre con aria fiera, da donna sicura di sé.
Le dico subito: “Sei sempre bellissima!”.
Lei risponde: “Macché, ho messo su peso, e spesso mi fanno male le gambe! La menopausa è stata una tragedia!”.
Sorride, e io ricambio il sorriso.
Ci sediamo e ordiniamo due birre.
Il mio telefono squilla.
Rispondo e riattacco subito.
Le dico: “Scusa, era mio marito”.
Lei, seria: “Ti sei sposata? Non lo sapevo”.
Rispondo con un gesto lieve: “Eh…”, come a dire: non è l’unica cosa che non sai: ho cambiato quartiere, vivo a Prati nella casa che mi ha lasciato zio Pietro, che è morto da un giorno all’altro e non ho avuto nemmeno il tempo di dirgli ciao. Non sa che ora vado in palestra, non mangio più glutine, e – soprattutto – ho imparato a volermi bene.
Raffaella mi dice solo: “sono felice di vederti con la fede al dito”, poi inizia a parlare di sé, per un’ora intera: della madre, di suo marito che ha cambiato lavoro – dal negozio di arredamento a un’attività con suo figlio: forniture per palestre.
Per un momento, ricordo il suo straordinario talento per i monologhi infiniti.
Poi mi chiede di me, e dei miei genitori, gli racconto che ancora vivono da soli e so che è un miracolo, poi mi pavoneggio quando le dico dei miei successi lavorativi in azienda, di Alessio che lo amo tanto. Infine – come se temesse di chiedere troppo – mi domanda di Mauro.
Faccio cadere la maschera, quella che Pirandello diceva che senza di essa non siamo nulla, io invece così davanti a lei mi sento tutto. .
Le racconto di come ho scoperto che Mauro frequentava un’altra donna, quella con la quale ora vive, di come sono stata male, poi per non cedere in un pianto le parlo della mia decisione di adottare un bambino, che abbiamo avviato le pratiche con mio marito, e che manca poco.
La vedo commossa, un attimo di occhi lucidi, che con un sorriso scaccia via.
Come se le emozioni per lei fossero polvere su un tavolo, basta un solo gesto per scacciarle via.
Capisco che mi vuole ancora bene, dal suo sguardo, da come mi dice: “indossi sempre il solito profumo al mughetto, hai sempre i denti incredibilmente bianchi, e sono felice che tu sia sposata con uno psicologo, così eviterai di cadere in qualche buco! E sono felice che adotterai un bambino!”
E poi mi sorride, e mi stringe le mani.
Siamo già alla seconda birra, le emozioni mi scivolano via come sabbia in un retino: una lacrima, poi due, poi tre.
Mi asciugo il viso e le dico: “Scusami. Sono così felice: della mia vita, e di averti qui. Mi sei mancata”.
Decisa risponde:
“Dai, andiamo a fare due passi, prima che tu finisca tutti i fazzolettini che hai in borsa”.
Mi conosce troppo bene.
Usciamo e mi prende sotto braccio.
Camminiamo in un parco pubblico pieno di giochi semidistrutti, come vecchi guerrieri spartani.
Per tutto il tempo, nessuna delle due nomina gli anni in cui non ci siamo parlate.
Perché ricordare la rottura, quando la riconciliazione è così bella?
Mi accompagna alla macchina e dice che dobbiamo rivederci presto.
Mi dice : “Siamo state anni nell’oscurità, io e te, e il brutto è che ci eravamo convinte che fosse luce”.
Abbassa il mento, gioca nervosamente con le chiavi di casa.
Mi guarda e conclude:
“Margherita, alla fine non ce la facevo più ad accettare che ogni cosa che diceva Mauro penetrava dentro di te, senza difese, e ti trafiggeva il cuore. Non ce la facevo a tollerarlo e ti ho allontanato, invece di proteggerti“.
Poi appoggia la testa sulla mia spalla.
Si stacca da me e dice: “Parto un mese, andiamo in vacanza in montagna. Scrivimi, spesso, anche solo per raccontarmi che sei andata a fare la spesa, va bene? Voglio recuperare il tempo perso!”
Annuisco.
Lei si allontana verso la sua macchina, girandosi un’ultima volta per salutarmi e mi fa il segno ok, con il pollice alzato
Quel gesto semplice, antico, che avevamo fatto mille volte da adolescenti io e lei, ogni volta che ci separavamo.
Così alzo anch’io il pollice e le sorride, poi d’istinto le corro incontro e l’abbraccio stretta, mentre sento il profumo della sua pelle, e di una parte degli anni più belli della mia vita.
