Lezione di parole – un racconto di Benedetta Bindi
Eravamo tutte in classe, io e le mie amiche. Giulia, Claudia, Ludovica ed io. Molti erano partiti per la settimana bianca e l’aula, stranamente, era meno gremita del solito.
La quinta F era composta da ventitré alunni, stipati in pochi metri quadrati.
Ci avevano detto che avremmo dovuto sopportare quella sistemazione solo per due mesi, da settembre, a causa della ristrutturazione del liceo. Era fine gennaio. Non avevano ancora finito.
Quella mattina, con un cielo terso e un’aria pungente — proprio come piace a me — eravamo solo in quindici, quando entrò il supplente di italiano.
Alto, magro, biondo riccio, con tanti capelli. Camicia celeste, giacca a quadretti marrone, pantaloni chiari.
Elegante, direi. E sorridente. Due caratteristiche che mi affascinano molto in un uomo.
Appena si è seduto, io e le mie amiche — dopo qualche sorrisetto complice — abbiamo iniziato ad ascoltarlo con attenzione.
«Salve, ragazze e ragazzi», esordì.
Mi piacque subito quel suo modo di rivolgersi a noi. Di solito dicevano tutti: “Allora, ragazzi…”
«Oggi, visto che starò qui solo due ore — perché domani torna il professor Guglielmi — ho concordato con lui di fare un fuori programma: un discorso sull’importanza delle parole e della scrittura.»
Brusio in aula. Alla fine, erano tutti contenti.
«Chi ha voglia di ascoltarmi, lo faccia. Chi non ne ha, può anticipare i compiti, ma senza disturbare. Grazie. Cominciamo.»
Calò un silenzio tombale.
Nessuno ci aveva mai parlato così. Con rispetto, dandoci la libertà di scelta.
“È grandioso, questo qui”, pensai.
Non potevo non ascoltarlo. E poi, come ho già detto, era pure carino. Cosa che non guasta.
«Avete mai pensato alla forza delle parole? Una forza che ne determina l’efficacia e che può produrre conseguenze. Avere la parola è sinonimo di prestigio, di persuasione. Tutti, sui social, vogliono dire la propria: che si tratti di vestiti, cucina, città da visitare, sport… . Anche apparire in TV è il sogno di molti, pur di dire qualcosa. A volte, in certe trasmissioni, si sentono dire cose ridicole solo per il gusto di parlare. Io cambio canale subito. Chi invece ha voglia di scrivere, spesso è perché coglie qualcosa del mondo — o di sé stesso — e vuole dargli voce. Scrivere è un’esplorazione dell’anima e del mondo. Io ho iniziato a farlo a quattordici anni, dopo una delusione d’amore. Ogni giorno, per tre anni, ho scritto: pensieri, stati d’animo. Un giorno Marco, mio fratello maggiore, cercando la muta per andare a immergersi — una nostra passione comune — ha letto alcune mie pagine sul computer. Avevo lasciato il PC acceso, con il diario aperto. Al ritorno, a cena, ha citato alcune frasi davanti ai miei genitori. Per me, erano lame. Non parole. Mi si conficcavano nel cuore. Mi vergognai così tanto da chiudermi in stanza. Ma va bene anche provare vergogna. Quell’esperienza mi ha insegnato qualcosa: a proteggere ciò che scrivo, certo, ma anche a scrivere meglio, con più rigore. Volevo far vedere a mio fratello chi ero davvero. A diciotto anni ho pubblicato il mio primo romanzo. Non mi sono comprato una casa, è vero. Ma un motorino usato sì. E, alla vostra età, è un gran traguardo. Mi sono laureato, e non ho mai smesso di scrivere. Pubblico, guadagno un po’, ma non abbastanza. Insegno, anche, ma non solo per lavoro: è un’altra mia passione.»
Gli brillavano gli occhi.
Poi ci ha chiesto se conoscevamo il film L’Attimo Fuggente.
Abbiamo risposto sì, all’unisono.
Citò la scena in aula quando parla Robin Williams:
“Medicina, legge, economia, ingegneria: sono nobili professioni, necessarie per vivere. Ma la poesia, la bellezza, l’amore, il romanticismo… sono queste le cose che ci tengono in vita.”
Sentii un magone allo stomaco.
Poi riprese:
«Scrivete. Poesie, canzoni, frasi, romanzi… ma scrivete. Non sprecate ore e ore su TikTok o Instagram. Datevi un tempo anche per quello. Forse, ogni tanto, qualcosa di interessante lì si trova. Ma mai come in un buon romanzo, un saggio, una poesia.»
Poi ci recitò:
> Non importa quanto stretta sia la porta,
Quanto impietoso sia lo scorrere della vita,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima.
(William Ernest Henley — Invictus)
«Conoscete questa poesia?»
Ludovica alzò la mano e prese la parola.
Come spesso accadeva con i professori, lasciò a bocca aperta anche lui:
«Una poesia emblematica per la forza d’animo: Invictus, mai sconfitto, indomito. La scrisse il poeta inglese William Ernest Henley mentre era in ospedale. All’età di 12 anni fu colpito dal morbo di Pott, una grave forma di tubercolosi ossea. A 17 gli amputarono una gamba. Nonostante tutto, visse con una protesi per altri trent’anni. Questa è la poesia che Nelson Mandela si ripeteva durante la prigionia a Robben Island.»
Ci lanciò occhiate cariche di vittoria, il prof. la guardava incantato.
Sognavo, almeno una volta, di andare bene come lei a un’interrogazione. Ma non era mai possibile.
«Brava… come ti chiami?»
«Ludovica.»
«Ludovica, tu non perdi tempo sui social. Ne sono certo. Magari scrivi anche?»
Abbassò lo sguardo. Per la prima volta le vidi le guance rosse.
Se avesse avuto dieci anni in più, sono certa che l’avrebbe invitata a cena.
«Sì, scrivo da parecchio tempo… da sempre, che io ricordi. Oggi è la prima volta che lo dico. Nemmeno le mie amiche lo sanno.»
Sei ragazzi non ascoltavano, due ragazze ripassavano fisica.
Eravamo rimaste in sette, e quattro di noi erano amiche.
Scoprimmo così che Ludo, oltre ad avere tutti otto e nove — tranne un cinque in matematica — scriveva!
Prima che potesse aggiungere altro, suonò la campanella.
Lui ci salutò dicendo:
«Datevi da fare, ragazze. E non sprecate troppo il vostro tempo.»
L’altro giorno, in libreria, mi è capitato tra le mani il suo ultimo libro:
“Sogni ricorrenti” di Arturo Longonesi. La copertina raffigurava montagne azzurre e silenziose.
Poco più in là, c’era anche un altro libro.
“Le parole scordate” di Ludovica Clementi. La mia amica.
Li ho comprati entrambi.
E, mentre tornavo a casa, ho sorriso.
Perché a volte basta una lezione, una sola, per far germogliare una vita intera.


