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Nuovi virus, vecchie paure, cronico prevalere dell’ignoranza

Solo poche settimane fa la stragrande maggioranza della popolazione mondiale non aveva idea di cosa fosse realmente un virus, di che differenza passi fra un virus, un batterio o un fungo, eppure da giorni tutti parlano di coronavirus come fossero esperti virologi, come se distinguessero a occhio nudo un virus a RNA da uno a DNA.

Si, RNA e DNA, quelli del codice genetico, ecco cosa sono i virus: dei pacchetti di DNA o di RNA associato a qualche proteina essenziale per la propria sopravvivenza. Un virus non campa fuori dalle cellule di altri organismi e senza queste non si può replicare.

Sono organismi semplici, parassiti obbligati, ma oltre a tanta paura fanno anche qualcosa di buono per l’evoluzione: concorrono alle mutazioni, alla nascita di nuovi organismi, di varianti più o meno adatte all’ambiente. Sono poi in grado di prendere qualche informazione dall’ospite dove stanno e acquisire la capacità di andare ad un’altra specie. Certo, tutta questa novità crea qualche problema agli animali, uomo compreso, che si infettano: non li riconoscono e hanno bisogno di più tempo per contrastarli. Questo tempo a volte alcuni individui più deboli non ce l’hanno e ne pagano le conseguenze. Cosa c’è di diverso questa volta? Nulla!

In anni non sospetti qualcuno scriveva ciò che segue descrivendo il contenuto di un bellissimo libro divulgativo ma serio (Spillover di David Quammen): “Ogni lettore reagirà in modo diverso … quando scoprirà che ciascuno di quegli animali, come i maiali, le zanzare o gli scimpanzé …può essere il vettore della prossima pandemia – di Nipah, Ebola, SARS, o di virus dormienti e ancora solo in parte conosciuti, che un piccolo spillover può trasmettere all’uomo”.

Inutile cercare complotti, scienziati pazzi che per fini oscuri e loschi si divertono a produrre nuovi virus cattivissimi.Altrettanto inutile, per non tecnici, infilarsi in discorsi complessi o incomprensibili.

Qualche dato però dovrebbe rasserenare chiunque:

Finora il nuovo coronavirus (fa parte della famiglia dei coronaviridi, una delle tante famiglie di virus) ha mostrato una letalità inferiore a quello della maggior parte delle epidemie virali recenti e passate. Minore della SARS, la sindrome respiratoria acuta grave che tra 2002 e 2003 seminò 774 morti su circa 8 mila casi, con un tasso di mortalità del 9,6%. Inferiore alla Mers che aveva colpito 2.500 soggetti provocando la morte in 858 di loro, con un tasso di mortalità del 30%. Il tasso di mortalità del Coronavirus 2019 n-cov potrebbe non raggiungere il 2% (si sta abbassando all’aumentare dei casi). L’infezione aviaria da ceppi H5N1 avrebbe una mortalità nell’uomo che varia dal 30 al 70-80%.

Andando indietro nel tempo non possiamo dimenticare che, pur con mezzi ben diversi per affrontarla, l‘asiatica fu una pandemia influenzale di origine aviaria, che negli anni 1957-60 fece circa due milioni di morti (era causata dal virus H2N2 influenza tipo A), isolato per la prima volta in Cina nel 1954. Prima ancora, la cosiddetta “spagnola” fra il 1918 e il 1920 uccise centinaia di milioni di persone nel mondo e fu la prima delle due pandemie che coinvolgono il virus dell’influenza H1N1.

È vero che per comprendere gli effetti di una epidemia e le sue conseguenze non si può guardare alla sola mortalità ma anche alla contagiosità e alla velocità di propagazione, ma complessivamente la situazione attuale non differisce da quelle del passato più o meno recente.

Oggi i media e soprattutto i social accelerano l’informazione, ne perdono i filtri qualitativi e passa di tutto, ma se ci fosse un po’ di senso critico si starebbe più tranquilli (che non vuol dire non attivare le giuste attenzioni), si eviterebbero scene di “coglionaggine collettiva” (che è il mix di ignoranza, superficialità e presunzione, quella stessa che permette a tutti coloro che guardano una partita di essere ct della nazionale) e si vivrebbe meglio.

Carlo Lovati – medico

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