cultura

Io e lei – un racconto di Benedetta Bindi

“Se ti aspetti qualche forma di ricompensa, non è amore: l’amore vero è amare senza condizioni e senza aspettative.” Madre Teresa di Calcutta

Ricordo i ripetuti messaggi di Ester, le sue accuse, le sue provocazioni, che mi arrivavano con un bip sonoro del telefonino e mi allontanavano da lei. La critica si aggrappava a una frase e ne tirava fuori un’altra, senza fine. Occorrevano troppe parole per difendersi, e io a un certo punto non ne avevo più, mi morivano in gola, affaticate e stanche. Mi ero abituato ai suoi insulti, a lasciarla sfogare, fino a quando, esasperato, uscivo a camminare. Mi ripeteva che avevo camomilla nelle vene, non sangue. Io ero sempre lo stesso, lei era cambiata, e non sapevo perché.

Mi urlava così dal nulla: “Vivi senza voglia di niente, scrivi i tuoi articoli, e la domenica sei capace di girare tutto il giorno per la campagna con il cane”. I weekend trascorsi al casale insieme erano ormai perennemente tesi. Lei diventava nervosa per qualsiasi cosa o perdutamente malinconica. Io preferivo camminare nelle verdi vallate o avventurarmi in qualche bosco. Portavo con me Blu, il mio bassotto. Poi rientravo a casa e mi rimettevo a scrivere. Facevo il bell’indifferente, e lei non lo sopportava. Così ritornava ad affliggermi con il suo brontolio continuo, che ero fatto male, che sarei dovuto essere come… E citava i nomi dei mariti delle sue amiche. Un tempo invece le piacevo, e anche parecchio.

Ha fatto di tutto perché lasciassi Maria, mi ha puntato come fa un cane con un osso, fino a quando non mi ha preso. Mi ha “perseguitato”. Ne ero lusingato, non mi era mai capitato che una donna tanto bella mi volesse con tutta se stessa. Ho ceduto. Ci siamo conosciuti a una serata di beneficenza, io dovevo intervistare un tipo, lei invece accompagnava un’amica. Mi si è avvicinata mentre io cercavo di farmi largo tra la folla, cercavo disperatamente di raggiungere l’architetto Riparbelli. Lei si è piantata di fronte a me, sorridendomi, ricordo la sua frase: “Signore, come posso aiutarla?” Mi ha scortato da lui, era così bella, con i tacchi, un abito corto attillato, le persone si facevano largo per vederla camminare. Io che per natura sono distratto, avevo pensato fosse un’hostess. Una di quelle belle donne che si vedono alle serate, ai congressi, e aiutano gli invitati a sedersi. Invece, per tutto il tempo dell’intervista, non mi staccava gli occhi di dosso, mi ha aspettato fino a quando non ho terminato di lavorare. Poi mi ha portato al bar, dopo due martini mi girava la testa, lei mi ha invitato a casa sua, e poi nel suo letto.

Siccome avevamo cominciato dalla fine, l’indomani mattina ho ripreso dall’inizio, mi sono accertato che non fosse sposata né fidanzata. Sono pigro per natura, e le storie complicate le ho sempre evitate. Quando ho saputo che era sola, ho fatto la mia scelta, e dopo poco siamo andati a vivere insieme.

Poi poco più di un anno fa, si è immersa nei suoi pensieri e nei suoi rimproveri, ha dimenticato il mio amore e all’alba di un mattino di marzo, ha preso le valige e ha lasciato il mio appartamento. Al mio risveglio, ho trovato solo un biglietto in cucina: “Mi sento segare il cuore in due, me ne vado”. Ha mandato un’amica a prendere le cose rimaste nel mio appartamento, e non l’ho più rivista fino a ieri.

Ho fatto l’inviato da Parigi poco dopo la separazione da lei, ho accettato subito appena il giornale me l’ha proposto, senza pensarci un minuto. Mi era diventato odioso tutto: la mia casa, le strade e i luoghi dove andavo con lei, e vivevo nel terrore di vedermela davanti abbracciata a un altro.

Sono partito felice. Anche a Parigi, però, non riuscivo a non pensarci alle sue spalle leggermente incurvate, la schiena tenera e fine, la pelle bianca e gli occhi verdi. Mi è capitato di andare con altre donne, ma Ester l’avevo sempre dietro di me, come fosse uno zaino, sentivo il suo fiato sul collo.

Così al mio ritorno a Roma, dopo un anno e mezzo, ho ceduto e sono andato a cercarla. Sono passato sotto il suo ufficio, su e giù fino a quando non l’ho vista uscire. Sono andato verso di lei come se fossi passato di lì per caso. Mi ha riconosciuto subito, ho visto le sue labbra accennare un lieve sorriso, come se fosse la cosa più normale del mondo che mi trovassi lì davanti a lei, in una giornata di pioggia, due anni dopo che mi aveva abbandonato mentre dormivo. Indossava un impermeabile largo, nero, piuttosto corto, dal quale usciva un vestito rosso a fiorellini e due gambette sottili e bianchissime, conficcate in degli stivali da cow-boy.

Lei ha subito messo la sua mano nell’incavo del mio braccio, che teneva con forza un grande ombrello colorato che maledicevo tanto era pesante. Baciandomi la guancia ha detto: “Accompagnami a casa”.

Per tutto il tragitto siamo stati in silenzio, io mi sentivo bene, terribilmente felice. Di lei mi sono innamorato in modo duro, come non mi era mai capitato prima, e più stringevo il suo esile braccio vicino al mio petto, più dimenticavo tutte le ingiurie che mi aveva urlato contro per mesi, prima di lasciarmi. Capivo che è umano amare, ma lo è ancora di più perdonare, o almeno a me riusciva facile, mentre sentivo l’odore della sua pelle tanto vicina.

Ho fatto finta che noi due non fossimo mai esistiti fino a quel momento.

Ester ha voluto che salissi in casa con lei, ero convinto che con timidezza ci saremmo spogliati, facendo cadere sul pavimento i nostri abiti umidi. Invece lei si è tolta l’impermeabile e mentre lo poggiava sulla sedia, io ho sentito girarmi la testa e le gambe farsi liquide. Ora lei ha una pancia enorme che pare le arrivi al mento. Subito ha notato il mio pallore e ha detto: “Ti prego, non fare domande. Stasera, se vuoi, rimani, preparo qualcosa di caldo, e poi fuori piove”, come se fosse un evento pericoloso.

Abbiamo cenato insieme, l’ho guardata con attenzione: i capelli raccolti in una coda, gli occhi grandi e tristi. Ho provato per lei una pulsione erotica fortissima, che mi è salita alle guance ogni volta che mi è caduto lo sguardo sul suo seno gonfio di latte, e una tenerezza infinita per quella palla che era diventato il suo ventre. Si è morsa le labbra, tanto era concentrata a scansare dal minestrone che aveva scaldato i fagioli, dice che le gonfiano la pancia più di quanto già lo sia. Ho sentito che dovevo tornare a proteggerla, consapevole ormai che lei è la mia croce.

Poi ci siamo stesi sul letto, era stanca, continua a lavorare ancora all’ottavo mese. Mi ha dato la schiena e mi ha chiesto se le parlavo della mia esperienza a Parigi. Io chiacchieravo piano mentre un mio braccio le cingeva il ventre. D’improvviso è scoppiata a singhiozzare, dal più profondo del cuore. Poi si è girata verso di me, mi ha preso con le mani il viso. Sentivo la pressione dei suoi palmi sulle mie guance, guardandomi negli occhi mi ha detto: “Dovevo essere tuo questo bambino, non suo, capito? Doveva essere tuo, lui non si merita niente, è te che voglio! Nessun altro”.

Io ho stretto i pugni, ho soppresso la rabbia e il rancore. Avrei voluto frantumarmi le nocche sul muro, per sentire dolore fuori e non quello che sentivo invadermi da dentro.

Poi Ester ha ripreso un inconsolabile pianto, fino a quando non si è addormentata tra le mie braccia. Sentivo il ticchettio della pioggia sui vetri e più pensavo di alzarmi, più rimanevo ancorato al materasso, fino a quando non mi sono addormentato. Mi ha svegliato al mattino prestissimo il calcio del bambino sulla mia mano appoggiata sul pancione di sua madre, come a dirmi rimani.

Luca ora ha due anni, e i suoi occhi sembrano proprio uguali ai miei.

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