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Il Gabbiano – un racconto di Benedetta Bindi

Alcune persone parlano con gli animali.
                                     Poche persone però li ascoltano.
                                     Questo è il problema.
A. A. Milne

Ogni giorno alla mia finestra, lui paffuto e libero, io affaticata e secca. Possibile mi dicevo che arrivi sempre alla stessa ora, appena rientro dal lavoro, e stanca mi siedo sul divano? Era un gabbiano splendido, almeno così pareva a me. Ho iniziato a parlarci a poco a poco, al sesto, settimo giorno che lo vedevo. La prima cosa che gli ho detto è stata: “Cosa guardi?” risentita. Mi vergognavo terribilmente della confusione in casa, io che per natura sono piuttosto ordinata. Lui fisso al vetro, con quegli occhi gialli, ha osservare il mio salone come fosse un poliziotto in cerca d’indizi. Ricordo gli dissi: “Sì lo so noti il disordine, la colpa è dei miei figli, io cerco di..” improvvisamente ho sentito le lacrime scendermi giù dagli occhi, inarrestabili e calde. Io che sin da bambina avevo mandato giù tutto, trattenuto tutto.  Mi sentivo una stupida, una disperata, una folle, che parlava con un animale. Nella casa regnava il silenzio, udivo solo i miei singhiozzi, e il suo sguardo ostinato su di me. Dicevo a tutti che stavo bene, anzi meglio, da quando ero sola, ma era una frase che pronunciavo solo per convincermene. Certe notti mi prendeva la nostalgia, e mi mancava il sonno in quel letto troppo grande. Dovevo alzarmi e andarmi a fumare una sigaretta.

Così quando il gabbiano ha iniziato a farci visita, avevo i nervi  tesi, mi trascuravo, e trascuravo la casa.

Avevo dei capelli bianchi che spuntavano da ogni parte, ricordandomi l’inesorabile prepotenza del tempo che passa. Mentre sulle gambe dei peli minacciosi, uscivano dalle calze dritti e appuntiti come chiodi. I panni da stirare lievitavano nello sgabuzzino, altri da piegare erano appoggiati su una sedia, mentre la polvere si sdraiava malefica in ogni dove. Mi reggevo a stento in piedi, dubbiosa se non avessi fatto il passo più lungo della gamba. Avevo tirato su l’ancora ed ero partita, per un viaggio del quale non sapevo la destinazione. Avevo lasciato Maurizio mio marito, dopo sedici anni di matrimonio. Un giorno avevo detto basta, e iniziato una nuova vita, molto più faticosa della prima: sola, con un figlio adolescente e l’altro in procinto di entraci. Lavoravo, e correvo per compensare tutti i buchi che l’assenza di mio marito comportava. Lui trovava impegni improvvisi, per farmi pagare la mia scelta, a parer suo assurda. Così spesso, il pomeriggio per portare ognuno dei miei figli a fare sport, trascorrevo molte ore in macchina. Avevo dovuto comprare un buffo copri sedile, con delle roselline di plastica, che mi si conficcavano nella schiena, tanto da non capire più quale fosse il punto nel quale sentivo dolore. La mia erborista diceva fossero una sorta di agopuntura, efficacissima. Io non ho mai capito se mi facessero bene, sicuramente però mi tenevano sveglia. Insomma la mia esistenza non era una passeggiata. Correvo tutto il giorno, mangiavo in fretta, se lo facevo…dormivo poco e soffrivo di stanchezza cronica. Avevo fatto un accordo con il mio capo, niente pausa pranzo, così tornavo prima a casa. Al mio rientro trovavo Lorenzo, il mio figlio sedicenne, in camera a studiare, o steso sul letto con il cellulare.  Natalia gli aveva cucinato qualcosa ed era scappata via, sistemando solo il bagno e la cucina. Più ore non potevo permettermele, e lei non mi regalava nemmeno dieci minuti in più per rifarmi i letti. Era più legata a mio marito, essendo la governante di mia suocera, e si schierava dalla parte avversaria, nella mia battaglia per la libertà.  Così appena rientrata dall’ufficio, sistemavo velocemente le stanze e mi sedevo sul divano, prima di riuscire a prendere Diego, il mio figlio più piccolo. Nella mia pausa relax, il gabbiano  ha iniziato a farmi visita, prima  una volta, poi due, poi tre, alla quarta ho chiamato Lorenzo. Non si trattava più di una coincidenza, mio figlio arrivato in salotto,  e ricordo che mi ha detto: “Allora? È un gabbiano pensavo avessi visto un ufo”. Io ne  avevo paura, e ho ripreso eccitata: “Ho letto che sono aggressivi, mangiano i gatti, e poi se ne venissero altri? Se non potremmo più aprire le finestre?” Allora lui toccandosi il ciuffo e portandolo indietro con le mani, come a scrollarsi di dosso le mie parole, ha detto: “Sei troppo stressata, tranquilla non ne verranno altri, noi non abbiamo gatti, non romperanno i vetri, non è un film dell’orrore. Hai voluto fare tu tutto questo casino con papà, ne uscirai matta se non ti calmi”.

Era la prima volta che mio figlio parlava della mia separazione, ma non era la prima volta che lui riusciva a cambiare il ritmo del mio cuore.

Allora io ho risposto con voce più calma: “Che vuoi dire, che ho sbagliato?” Poi mi sono messa in piedi a guardare fuori dalla finestra, mentre mettevo l’unghia del pollice sotto quella dell’indice, un tic che mi prende quando sono agitata. Mentre il gabbiano rimaneva fermo immobile, per nulla spaventato dalla mia presenza. Mio figlio si è avvicinato, e mettendomi un braccio intorno alle spalle ha detto: “Hai fatto quello che sentivi, ora vado a studiare domani ho la versione di latino”. Mi ha dato un bacio sulla guancia, ci siamo guardati e gli ho sorriso, poi è sparito in camera sua. A volte è così, basta un gesto, una frase, e subito riaffiora davanti a noi quella sensazione d’immenso che non sai spiegare.

I giorni passavano, e il gabbiano era diventava una presenza fissa. A poco a poco ho iniziato a mettergli del pesce sul davanzale. Il mattino, prima di uscire. E’ incredibile che sia accaduto, correvo tra uno scaffale e l’altro sempre di fretta, e poi improvvisamente ho iniziato a pensare a lui. Visto che non gli avevo mai dato da mangiare, mi è balenato in mente che invece voleva solo quello. Io che per giorni gli avevo parlato della confusione di casa, dei miei dubbi per non aver voluto ricucire il mio matrimonio.

In quel periodo non ero abbastanza forte, per amare tutta quella solitudine che mi sentivo addosso. Per questo continuavo a parlare con lui, dovevo farlo per non impazzire. I miei genitori, i miei amici, tutti avevano criticato la scelta di separarmi. Anche mio figlio undicenne mi ripeteva: “Dai mamma fai tornare papà?!”

Era dura per me, ero diventata la cattiva, io che ero stata tradita! Per quanto Maurizio mio marito si disperasse e mi dicesse che per lui, la sua giovane assistente non avesse significato nulla, che l’aveva licenziata, sentivo una ferita che non si rimarginava. Io credo che più grande è la fiducia, e più grande è il tradimento, ho dato sempre la massima libertà a mio marito, ma lui aveva rovinato tutto. Così la sera se ritardava dall’ufficio, o se partiva per lavoro e mi telefonava in ritardo, io stavo male. Una mattina ho detto basta: “Mi ama? Non mi ama? È stata solo una cosa passeggera? Per lui, ma non per me, io così non posso vivere, preferisco rimanere sola”.

L’ho cacciato di casa: lui piangeva, i miei figli piangevano, io piangevo sotto le coperte, ma dovevo farlo.

Trascorrevo le giornate alle prese con le mie pratiche in ufficio, la casa, la spesa, e i figli e non parlavo con nessuno di come mi sentivo. Non sopportavo i miei genitori, egoisti per eccellenza che dicevano a me che lo ero. Le mie amiche mi consigliavano di perdonarlo Maurizio, perché gli uomini sono fragili e noi forti. Io avrei preferito scomparire, cadere in un buco nero e tornare tra due, tre anni. Certe notti mi assalivano i dubbi, perché l’amavo ancora mio marito, ma avevo sempre intorno l’attesa ostinata dei miei, dei suoi genitori, degli amici, di lui. Me li sentivo perfino nel sonno. Mi ammazzava.

Lo raccontavo al gabbiano, a voce alta, o sussurrandoli al vetro, se c’era mio figlio in casa. L’animale mi pareva mi rispondesse con un verso della gola. Quando lo vedevo spiccare il volo, sarei voluta salire sul suo dorso e andare via con lui, sentire cosa si provava a stare in alto, visto che io mi sentivo frantumata, a terra.

Era sopraggiunto anche un problema, con Lorenzo. Voleva lasciare il liceo classico per iscriversi all’istituto grafico, che frequentava Beatrice la sua fidanzatina. Una ragazzina piuttosto scialba che si era frapposta tra me e lui, in un momento che le cose tra noi andavano tra noi a gonfie vele. Mi sembrava una pazzia. Diventavo rossa dalla rabbia, alzavo la voce, si discuteva, lui mi faceva il muso e poi scappava da lei. Ai figli ora si lascia carta bianca in tutto, basta che non abbandonino la scuola. A me i miei avevano detto: “Fai il classico o lo scientifico qui nelle vicinanze non c’è altro”. Senza preoccuparsi se almeno uno dei due mi piacesse, senza considerare che dovevo prendere la corriera alle sette del mattino, perché avevano deciso di trasferirsi in campagna, e io dovevo farmi un ora di viaggio e venti minuti a piedi.  Non mi hanno mai accompagnato in macchina a scuola. “La Barbara è brava”, dicevano a tutti con il loro accento toscano. Facevano entrambi gli architetti, hanno lasciato il loro studio, quando mio nonno è morto e hanno ereditato la sua villa in campagna. Così a quattordici anni, a me era cambiata la vita in peggio, immersa tra montagne di verde, mentre io sognavo discoteche, cinema, pub, e a loro in meglio perché erano esasperati dal frastuono della città.

Ora i genitori fanno tutto per i figli, anche l’impossibile, e mi domando se porterà dei frutti stargli così dietro.

Lorenzo è Arturo sono intelligenti, anche se giudicare l’intelligenza dei figli è difficile. Io spero solo che i miei ragazzi siano felici, facciano un lavoro che gli piaccia. Però visto che mio figlio non voleva fare grafica per passione, ma per stare più ore con la ragazzina, non potevo tollerarlo e dirgli: “Vai”. Dopo due mesi si sono lasciati, lui non ne ha più parlato d’iscriversi all’istituto di grafica, ed io ho tirato un sospiro di sollievo. Ne parlavo con il gabbiano, e lui sempre con lo stomaco vuoto poveretto ad ascoltarmi. Picchiava ogni tanto con quel becco, mentre io giù a raccontare anche della mia infanzia, di mia mamma che si dimenticava di riprendermi anche alle elementari. Arrivava un’ora dopo la nonna, con la sua cinquecento e i capelli diritti, perché la figlia, persa a disegnare un progetto, perdeva la cognizione del tempo. Io con i miei figli sono stata sempre puntuale, come una guardia svizzera, sempre. Quel povero gabbiano voleva mangiare, invece sorbiva i miei racconti, i miei lamenti, mentre sognava pesci al forno, crudi, al guazzetto, io gli dicevo: “Fermo mi rompi il vetro, ascoltami!” Ma l’ho accontentato tempo dopo. Ogni mattina, da quando avevo capito di cosa poteva aver bisogno, gli mettevo qualcosa di buono, in un piattino sul davanzale del salotto. Infatti il pomeriggio lo trovavo vuoto e lui non picchiava più sul vetro.

Poi un giorno alle 15.00, il solito orario nel quale mi distendevo sul mio divano grigio, ho sentito suonare. Era Maurizio, mio marito, o ex per meglio dire,  è entrato in casa con una giacchina striminzita, che mi è parsa piuttosto ridicola, i capelli appena tagliati, e un mazzo di fiori in mano.  Aveva la faccia stanca, mi ha implorato che l’ascoltassi. Mi ha detto che gli avevano offerto un avanzamento di carriera, a New York, per un anno. Voleva che partissi con lui e miei figli. Io avrei potuto finalmente fare un corso d’inglese, e lasciare l’ufficio nel quale ormai era consuetudine litigare ogni giorno, i ragazzi avrebbero fatto un’esperienza formativa all’estero, insomma ne avremmo beneficiato tutti. Poi inginocchiandosi in una posa piuttosto teatrale, nella quale sembravo Romeo e Giulietta, mi ha detto che mi amava, forse anche più di prima, perdutamente. Il gabbiano finito il suo discorso ha preso a battere sul vetro, una volta, due, tre. Mio marito ricordo ha fatto un balzo dal divano e ha detto: “Cavolo è lui! Me l’hanno detto i ragazzi che veniva un gabbiano, va cacciato, sono pericolosi, romperà il vetro!” Si è alzato pronto a spalancare  la finestra e mandarlo via, ma gli ho urlato: “Fermati!” Il gabbiano ha ridato una sonora botta al vetro con il becco, mi ha guardato ed è volato via.

Oggi sono venuta a passeggiare al porto, sono ferma a un bar, davanti a me vedo dei campi di calcio, e sullo sfondo la statua della libertà. Penso a lui, al gabbiano, ho sentito di essere più onorata quando mi veniva a trovare appoggiando il suo becco alla mia finestra, di quanto non sia accaduto l’altra sera. Mio marito ha ricevuto un prestigioso premio, grazie a una sua ricerca, e ha detto davanti a molti sconosciuti che il mio essergli stata vicino ha avuto un’importanza fondamentale. In tanti l’hanno applaudito, vedevo volti a me sconosciuti sorridermi. Ho avuto la consapevolezza in quel momento di aver fatto la scelta giusta, ma se non fosse stato per quel volatile panciuto, per il suo battere insistentemente al vetro, nell’attesa che pronunciassi un: “”, io ora non sarei qui, dall’altra parte dell’Oceano. Lo so che è un’assurdità, è un modo di guardare la vita dalla parte sbagliata del telescopio. Ma questo mi ha permesso di ridere di me, e della realtà della mia vita.

Ho perdonato Maurizio, un pomeriggio di aprile, con il sole che filtrava dalle finestre, e un gabbiano che mi guardava prima di spiccare il volo. Possiamo passare la vita a farci dire dal mondo cosa siamo. Eroi o vittime, buoni o cattivi. Oppure possiamo scegliere noi, e inventare qualcosa di meglio, come provare a stare nel mezzo, che non è per niente male!

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