culturasolo cose belle

Gli strati della mia pelle – un racconto di Benedetta Bindi

Bastava un’ inutile carezza / a capovolgere il mondo.
Alda Merini, Non voglio dimenticarti amore

La superficie non è affatto superficiale, è uno specchio dei nostri cambiamenti. Una carezza sulla pelle è stata vitale, ricevuta improvvisa, quando pensavo di essere morta. Mi ha trasformato. Penserete sia esagerata? Potrebbe apparire così, per chi non conosce la mia storia.

Era una mattina fredda, le strade erano ghiacciate, correvo veloce in motorino, ma ero abile alla guida, e sicura di me, come lo ero per un mucchio di cose. Per la prima volta, avevo fatto tardi in piscina. E la vita si sa, è sempre una concatenazione di eventi. Mi attendeva un’importante riunione in ufficio, dovevo prendere delle decisioni difficili. Io andavo troppo veloce, e la curva era troppo stretta, il pavimento era umido, e sono balzata dall’altra parte della strada. È un miracolo che io sia viva, e che scriva.

Ho aperto gli occhi, sentendo toccarmi il volto. Era una dottoressa, mi sorrideva. Posso ancora percepirlo, il suo calore sulla mia pelle. Tutta l’angoscia provata durante l’impatto con l’asfalto, si è tramutata in piacere per l’esistenza. Si può essere anche senza pelle, questo mi è accaduto per parecchi anni, quando ero piccola. La mia infanzia è stata differente, da quella degli altri bambini. Mia madre era diversa dalle altre mamme, silenziosa e poco affettiva, trascorreva le giornate a leggere, o a dipingere. Per ogni mio bisogno c’era tata Manuela. Mio padre era invisibile. Lui ha sempre ricoperto incarichi lavorativi importanti, vederlo in televisione, era più facile che averlo in casa. Entrambi mi hanno inculcato, l’ossessione per la perfezione. Io dovevo essere la prima in tutto: a scuola, al pianoforte, a cavallo, a nuoto. Dovevo non sporcarmi, essere misurata nel gesticolare, in ordine, e bella. Io cercavo in ogni modo di non deludere, le loro aspettative.

Non ho mai avuto il coraggio di dirgli, che mi sentivo maledettamente fragile, che mi mancava l’aria, che mi costava una fatica immensa essere come loro desideravano.

Mio padre mi ripeteva: “Tutto quello che faccio è per te, lavoro tanto per assicurarti il miglior futuro”. Non ricordo carezze, o abbracci da parte dei miei, se non per celebrare un mio successo. Ho dovuto aggiungere strati di pelle, per sopravvivere. Fino a quando, non si è fatta dura. Al punto da mostrarmi sorridente, dietro al pianto.

Dopo l’incidente, quando ero ancora all’ospedale, ho riacceso il telefono. E per la prima volta ho provato angoscia: una colonna di email, trenta telefonate non risposte. Ero la Vice Presidente, della Multinazionale nella quale lavoravo, una donna in carriera. Una tosta, dalla pelle dura. Senza figli, senza un uomo fisso, senza nessuno che mi disorientasse. I dottori mi avevano detto, che mi era andata bene: rottura del radio, escoriazioni su tutto il corpo, due costole rotte, un mese di riposo a casa.

Il primo fatto imprevedibile, nella mia esistenza perfetta. Per quindici anni, ogni giorno avevo seguito un programma stabilito: sveglia alle sei e dieci, colazione. Alle sette in vasca, luogo fantastico, dove tutto è misurabile. Ad ogni bracciata, pensavo al programma della giornata, i miei muscoli si rafforzavano, la mia mente si svegliava. Anche se sapevo nuotare alla perfezione, quattro stili, il mare mi incuteva un enorme timore. Troppo vasto, infinito. Spesso eclissavo inviti, in luoghi
fantastici, non volevo mettermi in ridicolo. Il mare mi terrorizzava. Preferivo trascorrere le ferie in montagna. Dove i miei avevano una casa. O in qualche capitale.

Fino all’incidente, mai un eccesso in nulla, mai un’emozione di troppo. Tre le mura del mio ufficio, mi sono sempre sentita al sicuro. Per me lo stress è sempre stato, il mondo fuori. Relazioni durature, matrimonio, figli, mi facevano accapponare la pelle. Cercare di alzare i profitti, era una sfida che mi apparteneva, era l’unica cosa che mi eccitava. Entrare appena laureata, in una delle più grandi multinazionali d’Italia, è stato come mettere un Gladiatore, nell’arena. Era quello che attendevo, quello per il quale mi ero preparata.

Dopo l’incidente, ho iniziato a percepire un malessere. Il dolore non era tanto nel corpo, quanto quello che proveniva da dentro. Non capivo più chi ero. Desideravo avere del tempo per me, anche per cose futili, come andare a fare un massaggio, una passeggiata, o perdermi a guardare le vetrine. Ho sentito l’esigenza di chiamare un’amica, farmi raccontare del saggio di danza della figlia. Conversazioni che un tempo, erano al limite del sopportabile. Non mi riconoscevo. Volevo capire come funzionava la vita, di una persona normale. Perché la mia non lo era, dodici ore di lavoro al giorno. Mangiare, dormire, e ricominciare allo stesso ritmo, da quindici anni! La carezza datami dalla dottoressa, mentre ero stesa sull’asfalto, ha fatto un taglio sulla mia pelle dura.

Vi è entrata una luce, quella ha illuminato il buio che avevo dentro. Chi ero? Una donna di trentasette anni, con un contro in banca invidiabile, con sporadiche relazioni, spesso con uomini sposati, così da rimanere dentro quella zona di confort che potevo gestire. Tutto mi pareva cambiato, ho iniziato a trovare meraviglia per le cose che mi angosciavano. E ho iniziato a provare fastidio, per quelle che un tempo appagavano il mio ego.

Ho conosciuto Francesco. Mi sono innamorata, e ho sentito che non c’è male in qualcosa che entra nel mio corpo, quello che ci danneggia, può venire solo da dentro. “Se vivi per te stessa Claudia, avrai grandi soddisfazioni. Il mondo è pieno di erba marcia”. Mi ricordava spesso mio padre. Ho capito grazie a
una brava psicologa, che la diffidenza e la paura, sono cresciute come un’edera sopra di me, fino a sovrastare, quello che veramente sognavo. Sino a cancellarlo.
Ho compreso non tanto come stare al mondo, ma il perché io vivevo in un determinato modo.

Dopo tre mesi dall’incidente, ho trovato il coraggio, e ho dato le dimissioni. L’anno dopo sono andata ad abitare in un’altra città, a Genova dove vive il mio fidanzato. Ci siamo conosciuti ad un Congresso, l’ultimo al quale ho partecipato a nome della mia azienda. Lui è un giornalista, mi ha intervistato per un mensile di
finanza. Ora ho trovato lavoro in una società, copro una piccola posizione, e desidero rimanga tale. Gran parte del mio tempo, voglio dedicarlo alla mia famiglia. Ho una figlia: Angelica, ha tre anni. Ogni giorno vivo e mi vesto, come fosse una festa, e di questa assurda esistenza, ho deciso di goderne ogni minuto. “Claudia non puoi solo lavorare, rallenta”.

Quante volte al telefono me lo ripetevano, Paola e Carla, quando disdicevo cene, e compleanni. Pensavo fossero invidiose di me, del mio conto in banca, dei miei successi, invece…

Semplicemente mi volevano bene, ma io non credevo fosse possibile un sentimento sincero, da parte di nessuno. Nei cartoni animati i personaggi corrono oltre il burrone, e non cadono finché non guardano giù. Ecco i miei genitori hanno vissuto sempre così, dritti sulla loro strada, sempre a testa alta. A me l’incidente l’ha fatta abbassare, ed è stata la mia fortuna.

Ora metto il naso nella pelle morbida di mia figlia, ed è meraviglioso. L’altro giorno abbiamo festeggiato il mio compleanno, io, la piccola e Francesco. Siamo andati a Venezia, ho preso il vaporetto, un tempo mi sarebbe venuto il panico, essere senza punti di riferimento, mi dava angoscia. Il mare aperto per me era terrore allo stato puro. Invece sono stata bene, respiravo.

La vita è sempre fuori controllo, come la morte, e accettarlo è imparare a vivere.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *