famigliapedagogia

Accontentiamoci della “sufficienza” dei nostri figli

Giulia poteva essere mia figlia, Filippo anche. Credo che il terrore più grande di ogni genitore sia quello di non conoscere fino in fondo i propri figli, il terrore di non saper o di non voler cogliere i segnali, i cambiamenti, il terrore di non saper accogliere ed affrontare il disagio di un figlio che preferiamo immaginare felice, che pensiamo sia un libro aperto solo perché diciamo di essere disposti al dialogo, di essere presenti, di fare tutto ciò che possiamo per loro. È difficile ed è impossibile però varcare la porta dei loro mondi, anche se in apparenza ci sembra tutto chiaro: è triste perché si è lasciato, è preoccupata perché la storia è finita e lui ci sta male, non vuole farlo soffrire. Andiamo alla ricerca dei ricordi delle nostre storie adolescenziali, chi non ha sofferto per amore? Chi non si è sentito in colpa pe raver troncato una storia? Chi di noi non ha passato almeno una notte insonne a guardare il soffitto o a disperarsi sentendosi morire? Allora mi interrogo, qual è la differenza? Qual è il punto di non ritorno per il quale si arriva a non saper gestire tutta la frustrazione e tutto il dolore? Soprattutto mi chiedo: non sarà che noi genitori abbiamo voluto essere gli anestesisti dei nostri figli? Non sarà che siamo stati dei pessimi allenatori emotivi? Non sarà che, nel tentativo di proteggerli, abbiamo creato persone che non sono in grado di gestire la frustrazione? E non sarà che anche questa società ci impone di mostrarci sempre forti e capaci e che, anche noi, non abbiamo più gli strumenti per accettare la fragilità? La nostra e quella di un figlio.

È doloroso, è inaccettabile, la morte di Giulia, la morte di tante donne, la morte che non è solo quella fisica. Ci sono morti emotive che ci passeggiano accanto e che non riusciamo a cogliere, ci sono ragazze, ragazzi, che vivono tormentati mentre apparentemente conducono giornate e vite normali.

Filippo è il mostro? Forse si, forse è il frutto di una società ormai malata e di cui tutti facciamo parte, una società che andrebbe rivoluzionata e alla quale non basta dipingere di rosso una panchina, non basta urlare slogan, non basta manifestare.

Educazione emotiva nelle scuole? Si, va bene, ma non è che con questo possiamo pulirci la coscienza. Io sento su di me tutta la responsabilità di dover crescere persone sufficientemente capaci di stare in questo mondo. Sufficientemente? E si, perché, a volte, ci dobbiamo far bastare la sufficienza e non pretendere dai nostri figli sempre l”eccellenza. Se la sufficienza può bastare a fare la differenza tra la vita e la morte di una ragazza allora vuol dire che abbiamo fatto un grande lavoro. Oggi prego per i genitori di Giulia e per quelli di Filippo e continuo ad interrogarmi e penso che non smetterò mai.

Annalisa D.

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