cultura

La risposta all’eutanasia si chiama Amore

Non parlerò in “bioetichese” stavolta. Questa volta desidero restituirvi solo uno scatto di qualcosa che osservo da tempo. Da più di 4 anni, due dei miei figli sono seguiti per terapie continuative da un centro di cura e riabilitazione fondato da don Orione. A fianco agli ambulatori, c’è il reparto semiresidenziale, dove ci sono “i ragazzi”, così li chiamano i terapisti: giovani gravemente disabili. Sì, proprio come Mario.

Li incontro tutte le volte, li saluto e poi mi siedo ad osservare piccoli momenti della quotidiana relazione assistenziale e in particolare lo SGUARDO di chi si occupa di loro: una vera catechesi per me. Ci sono gli infermieri che li nutrono, li lavano, li cambiano, li portano a prendere un po’ d’aria e poi ci sono quelli del trasporto e altri ancora, ex ospiti del centro, sulla sedia a rotelle, che tengono loro compagnia. Ebbene, tutti, ma veramente tutti, li guardano come fossero gli esseri più importanti del mondo, la loro voce è gentile, i loro modi teneri e pazienti. In una parola: LI FANNO SENTIRE AMATI, proprio loro, considerati dal mondo imperfetti, uno sbaglio della natura, uno sgorbio che qualcuno doveva fare in modo che non ci fosse.

È l’amore che ci tiene attaccati alla vita, che ci fa sentire voglia di ricominciare la giornata tutte le mattine, nonostante le tante ferite che ci portiamo nel corpo come nel cuore, che ci fa benedire la vita e Chi ce l’ha donata, perché quello sguardo d’amore che si posa su di noi è riflesso dello sguardo di Dio. E “i ragazzi”, grazie al carisma di san Luigi Orione, impresso nell’opera di chi si occupa di loro, questo lo sentono ed è ciò che dà SENSO a tutto.

Mario non ha bisogno di più “libertà”, nè tantomeno di essere ucciso per non soffrire più. Mario avrebbe bisogno di amore, per ritrovare senso e per ritrovare vita. Dietro a tutte le problematiche etiche che riguardano la vita c’è sempre una questione di senso, che non possiamo trascurare. Al di là dalle prospettive serissime che entrano in gioco nell’eutanasia (etiche, giuridiche, filosofiche, cliniche, ecc.), dobbiamo interrogarci su quale è lo sguardo che rivolgiamo all’essere umano che abbiamo davanti, al nostro simile, sano, malato, non-nato, disabile o anziano che sia. È uno sguardo che giudica il suo essere degno o meno di vivere — o forse, prima ancora, che giudica se è un uomo o meno — oppure è uno sguardo di chi si limita a riconoscerlo per ciò che è a prescindere dal suo “certificato di qualità”?

Da questo, prima ancora che da una legge, dipende la prassi eutanasica. Da questo dipende il rispetto della vita e della vera uguaglianza tra gli uomini.

Giorgia Brambilla

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