editoriali

Terremoto in Irpinia: dopo 42 anni, la paura non si dimentica.

Domenica, 23 novembre 1980 ore 19, 34. In televisione sul primo canale era cominciata da poco la replica di Inter – Juventus, la seconda rete trasmetteva un film per ragazzi “Il pirata Barbanera”. Era sera e c’era la luna piena. Faceva appena appena freddo. Il sibilo arrivò inaspettato, diventò un tuono, mentre la terra si scosse, scattò verso l’alto. Un sussulto, un secondo sussulto. Se ne andò la luce. Tutto ballava, si agitava in modo sconquassato, come in un frullatore. La scossa di magnitudo 6,9 sulla scala Richter partì da 30 chilometri di profondità, stravolse l’Irpinia e il Vulture, stritolò al suo passaggio un’area da Avellino a Salerno, scosse tutta Napoli e strapazzò Potenza.

Un minuto e ventinove secondi che quando smise lasciò devastazione e paura. Case che sono solo macerie, 2.914 morti, 8.848 feriti, 280.000 sfollati. Un minuto e ventinove secondi ma di Sant’Angelo dei Lombardi, Lioni, Torella dei Lombardi, Conza della Campania, Teora, Laviano, Baronissi ed altri 29 comuni non rimase più nulla. Crollarono presepi dell’Appennino e casermoni malridotti delle periferie: a Napoli, in Via Stadera, nel quartiere di Poggioreale la scossa inghiottì un palazzo: 52 morti; a Balvano il terremoto non si fermò davanti alla messa che si stava celebrando nella chiesa di S.Maria Assunta e schiacciò 77 persone, 66 erano bambini e ragazzini che stavano pregando.

Una tragedia immane, subito evidente agli occhi dei primi soccorritori partiti nell’oscurità per paesi inarrivabili. Solo a Roma non capirono, infatti la Protezione civile nacque in seguito, figlia di quelle macerie e di quei morti. Fate presto titolò il Mattino, un urlo da quel silenzio tombale che impressionò il mondo intero. Due intere regioni, la Campania e la Basilicata, e un pezzetto di una terza, la Puglia, risultarono devastate: in totale i comuni ammessi alle provvidenze sono stati 687. Il groviglio inestricabile di leggi e leggine che a vario titolo hanno disciplinato l’opera di ricostruzione ha obiettivamente favorito una richiesta di investimenti disarmonica alla realtà dei fatti: trentadue provvedimenti legislativi ad hoc… per l’equipollente di 30 miliardi di euro uno sperpero ancora oggi in piedi.

A distanza di 42 anni è possibile rileggere la storia di questo devastante evento non più sotto la lente degli scandali ma come un lungo processo di cambiamento che ha coinvolto ambiente, economia, politica, donne, uomini e comunità. Allo stesso tempo è possibile trarre addestramenti per gestire emergenze presenti e future in cui si voglia porre la giusta concentrazione ad aspetti sociali e in un’ottica di lungo ciclo. Le ricostruzioni post-disastro, ma anche tutte le situazioni di emergenza che sempre più spesso sperimentiamo, non sono un’accozzaglia di oggetti come case e strade ma andrebbero visti come un lungo processo, una serie di azioni che rispondono gradualmente a dei bisogni cablando le scelte urbanistiche a quelle socio-economiche. Da un ascolto attento di queste esperienze si dovrebbe partire per comprendere a fondo la fragilità del nostro territorio e delle nostre congetture di eternità.

Dopo il terremoto alcuni paesi furono completamente abbandonati; la gran parte fu, invece, via via ricostruita. In alcuni casi furono creati dei villaggi provvisori, formati generalmente da casette in legno, dove le persone hanno vissuto per molti anni in attesa degli alloggi definitivi: qualche esempio c’è ancora malgrado gli “appena 42 anni di anniversario”. Gli irpini, il popolo più colpito dalla sciagura, sono testardi per natura o meglio per genetica ma questa caratteristica gli è servita per ripartire anche dove lo Stato lento e macchinoso a stento aiutava, loro con tenacia hanno ricostruito anche se ad onor del vero una parte ha preferito emigrare però senza mai tagliare il cordone ombelicale con la terra natia.

I ricordi di quei giorni sono impressi nella mente di chi ha subìto e di chi accorse a dare la propria mano al fratello bisognoso forse è questo il lato positivo da scrutare tra tanti calcinacci misti a lacrime. Dopo anni dalla tragedia restano ancora intatti rapporti di amicizia quasi “familiari” tra i soccorritori accorsi da diverse regioni italiane ed i terremotati. La memoria ci insegna l’amore per la propria terra che ha consentito la rinascita dopo la devastazione imitando la natura che dopo la tempesta ci propone sempre il sole.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *