cultura

L’ingiustizia, un racconto di Benedetta Bindi

L’ingiustizia 

Accendere una lampada e sparire

Questo fanno i poeti

Ma le scintille che hanno ravvivato,

se vivida è la luce, durano come i soli.

(Emily Dickinson)

Lo ricordo come fosse ieri, quel mattino d’inverno quando nell’aula dalle pareti verde pallido, mi ero sentito dire dalla professoressa d’italiano un secco: “No Luca, non sei pronto! C’è troppo sentimentalismo nei tuoi versi, per  questo tipo di concorso. Non è adatto a te”. Io che di nove in poesia, ne avevo collezionati tanti da poter farci una collana, mi sono sentito.

Erano mesi che sognavo quel maledetto concorso! Non volevo credere a quelle due lettere, una  decisa e flessuosa, come una pista di formula uno, accompagnata dall’eccellenza delle forme .

Io, che mi svegliavo con i versi  nella testa. Io, che da bambino scrivevo  poesie su un foglio, e poi le appiccicavo ai muri della mia stanza.  Io, Luca, tenevo stretti i pugni seduto in quel banco troppo piccolo, per contenere  la rabbia che mi esplodeva frenetica, facendomi muovere interrottamente il piede destro. Guardavo quella donna con gli occhi truccati d’azzurro, e i capelli neri, cotonati. Erano tenuti stretti sulla nuca,  da un fermaglio d’orato a forma di pesce, sempre lo stesso da quattro anni. Quella professoressa che mi lodava alla prima occasione, d’improvviso sentii che non mi vedeva più. Eppure eravamo stati affini, con un denominatore comune: la passione per Pedro Salinas.

Ripetevo a memoria i suoi versi, soprattutto quando m’innamorai di Giada. Anche per lei volevo partecipare al concorso. Dimostrargli che in qualcosa ero bravo. Le sue amiche andavano a vedere i fidanzati alle partite di calcio, gli applaudivano. Io avevo un altro tipo di talento, ma non meno importante. Una volta ricordo, eravamo  seduti su una panchina al parco  le sussurrai:

“E sto abbracciato a te senza chiederti nulla, per timore che non sia vero che tu vivi e mi ami. …Non debba mai scoprire con domande , con carezze, quella solitudine immensa di amarti solo io”. 

Lei mi prese il volto tra le sue mani esili, lo avvicino alla sua bocca  e mi baciò. Le confessai che non erano parole mie, ma di Salinas.  Lei mi disse che le poesie sono di chi le usa, erano belle, erano per lei,  e le bastava.

Mio fratello Giorgio mi sfotteva sempre per questa passione peri  versi, per lui ero un ufo. Lui amava la musica Punk Rock, suonava la chitarra elettrica in una band, cambiava ragazza, come faceva per le scarpe. Io non l’ho mai invidiato. A parte quel giorno quando il no, deciso e prepotente della professoressa mi aveva devastato. Steso sul letto piangevo, lui era entrato in camera mia , mi aveva domandato cosa avessi, e a sentire il motivo della mia tristezza aveva riso. Forte , tanto, fino alle lacrime. Quando ha chiuso la porta della mia stanza, ho pensato che volevo entrare in lui, vedere il mondo con i suoi occhi. Poi una voce interiore disse di reagire. In trenta minuti scrissi, forse, la mia poesia più bella: “L’ingiustizia”. I primi versi sono così:

“Nessuno può darti la libertà. Nessuno può darti il coraggio  o la giustizia o qualsiasi altra cosa. Se sei un uomo, ciò che desideri te lo dovrai andare a  prendere”. 

Più scrivevo e più volevo liberare le parole che avevo dentro. Il  giorno dopo la consegnai nelle mani della professoressa, e guardandola negli occhi le dissi: “Mi dica se non sono pronto”. La Florenzi aveva scelto Maurizio, il secchione della classe, per partecipare al concorso. Eppure i suoi versi, seppur con una metrica perfetta,  erano privi di  passione, quella che sentivo scorrermi nelle vene. Io amavo la poesia, come si amano certe cose oscure, segretamente, nell’anima.  Il mio compagno di classe desiderava solo essere il primo in tutto, con razionalità, con freddezza, come erano i suoi versi. Finì che dopo sei  giorni, ricevetti un’email dal concorso poetico. La professoressa mi aveva iscritto senza dirmelo, forse per frenare il mio ego, o per farmi una sorpresa. Non vincemmo né io, né il mio amico, ma in ogni caso portai a casa il secondo  premio. Una scultura in ottone, con  un uomo che legge un libro, seduto su un sasso.

La tengo ancora nella libreria in salotto, anche se ora ho quarant’anni, e due marmocchi di sei, ogni tanto la guardo con orgoglio. Ricordo mi tremavano le mani, quando me la misero tra le mani. I miei genitori in prima fila erano commossi, la mia fidanzata accanto a loro mi applaudiva. Mi sembrava di volare. Non sono diventato un poeta, ma un giornalista, anche se la poesia la amo ancora, forse più di prima. Ancora oggi ne scrivo di versi, perchè loro rendono bello ciò che è storto. Forse un giorno a breve pubblicherò un libro , le mie poesie: “L’ingiustizia e altre poesie”. Di Luca Magris, ciò che si ama non va mai perduto, la poesia è un’eterna incisione scritta nel mio cuore. 

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