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Da romano “laziale” vi racconto i miei Derby

Ciao Giorgio, quanto è vero quello che scrivi!
Roma è sicuramente una città unica da mille punti di vista, e anche per quel che riguarda il calcio, non poteva essere da meno! Poche città al mondo possono vantare al loro interno una passionalità e una rivalità sportiva talmente radicata tra i propri concittadini… mi vengono in mente Glasgow, Buenos Aires e forse poche altre.

Anch’io da romano sono imbevuto di questa cultura e non ti nego che, da credente, spesso mi interrogo se tutto questo non sia anche una forma di idolatria, soprattutto ripensando a certe liturgie domenicali divise a metà tra il Sacro (la mattina) e il Profano (il pomeriggio). Mah..! Certo, di surrogati della Fede oggi se ne trovano a bizzeffe: nella società, in politica, nella cultura, nelle scienze… riti e tradizioni pagani di ogni tipo e in ogni dove, forse proprio perché “l’uomo non può vivere senza inginocchiarsi” come (pare!) diceva Dostoevskij.
O c’è qualcosa di più?

Io penso che, se l’uomo è quell’essere che vive l’esperienza del sacro e del trascendente per valorizzare la sua esistenza (homo religiosus), allora anche il Derby e, più in generale, il calcio e lo sport tutto, hanno un proprio significato più profondo.

Non ti nego, certo, che in vent’anni di abbonamento allo stadio e di stracittadine viste, mi è capitato di sentire in mezzo all’odore acre dei lacrimogeni anche una certa puzza di zolfo… e parlo da chimico, ovviamente!!! Ma lo sappiamo che anche il calcio porta sulla sua pelle la cicatrice profonda del morso sulla mela, e sarebbe ingenuo pensare il contrario; chi è stato all’Olimpico sa che c’è anche tanta brutalità, tanta volgarità e anche tanta cattiveria tra gli spalti, delle volte.
Però c’è anche una certa dimensione esistenziale dietro una passione calcistica che non è solo spettacolo e intrattenimento, e dicendo questo ripenso a quel film famoso del 1997 “Febbre a 90” con un giovane Colin Firth, che sicuramente anche tu avrai visto; o forse avrai anche letto il libro di Nick Hornby…

Come derubricare a “incivili”, “barbare” o “teppiste” tutte le storie sane e vere da stadio in cui emerge quell’affratellamento spontaneo, quella condivisione di emozioni altalenanti, quella spontaneità amicale, quella gioia che ti fonde con uno sconosciuto quando si esulta per un gol, o anche quell’inquietudine esistenziale follemente racchiusa in 90 minuti e in 7000 m2 color verde?

Devi sapere che io ho perso mio padre nel ’98 dopo una lunga malattia ma prima di ammalarsi ho condiviso con lui una decina d’anni di stadio, che ancora porto nel cuore. Lui che nel ’74 correva allo stadio a vedere Chinaglia e gli altri “ragazzacci” di Maestrelli, mi ha lasciato questa eredità, che io ho passato ai miei figli.
Dove c’è passione c’è l’uomo, immagine e somiglianza di Dio, e tutto ciò che la manifesta, secondo me, è cosa buona. Altro è l’uso, o meglio, l’abuso che se ne fa, ovviamente così come altro è la leggerezza di chi vive il calcio come svago, o come un qualunque spettacolo di intrattenimento.

Per questo ti dico che, per mia esperienza, lo stadio può essere un luogo di libertà vera, se uno lo vive con retta coscienza, e di un’umanità vera… pur non essendo ovviamente il Tutto della vita, ci mancherebbe!

Non so, mi viene da dire che forse il romano è attaccato non solo alla propria squadra ma di più a quello che riceve da ciò che gli sta intorno, indipendentemente dai giocatori e dai risultati delle partite; s’agita, esulta, si arrabbia fondamentalmente perché così si sente vivo e quindi ama, di un amore talvolta infantile, selvaggio ed orgoglioso, ma tremendamente spontaneo, solamente perché è fatto così e vive così… o forse pure per via anche di una città “pesante” da vivere e portare sulle spalle, da cui è bene ogni tanto liberarsi.

Da “lazialissimo”, però, concludo dicendoti che nel mio caso è vero quello che scrivi: io ho tutti i parenti romanisti, fratello compreso, ma non starei mai insieme a loro e non ho mai visto un Derby con loro. La vigilia, poi, non ne parliamo… non è fatta altro che di silenzio, di pensieri solitari ed affannati, di confidenze e paure bisbigliate al “fratello di fede”, in una malcelata indifferenza che trasuda sì ansia ma anche gelosia e attaccamento per tutto quello che la sua squadra significa. È certo un rito ma anche una vera sofferenza, credimi, per tutti, laziali e romanisti, e sono molti che come me in questi giorni stanno dicendo: “Questo Derby ce lo saremmo risparmiato volentieri!”

Poi succede, però, che l’arbitro fischia… e comincia l’apnea.

Ma grazie a Dio, anche qui a Roma dal giorno dopo torna tutto normale, bene o male… o quasi, in attesa del prossimo derby!
Ciao!

di Gianluca Croce

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