nomadelfia

Amico Zeno – il saluto di Giorgio Torelli a don Zeno Saltini (18 gennaio 1981)

Il 15 gennaio. 1981 don Zeno partiva per la vita eterna.

Quest’anno il Vescovo di Grosseto celebrerà la S. Messa in ricordo di don Zeno a Nomadelfia oggi lunedì 15 gennaio ore 17,30 – alla presenza della popolazione e di quanti vogliano ringraziare il Signore per questa vita spesa al servizio di Dio.

Noi de Ilcentuplo, che qui sul blog abbiamo una sezione dedicata a Nomadelfia, vogliamo ricordare quel giorno con le parole di Giorgio Torelli. Grazie di tutto don Zeno, prega per noi.

IL GIORNALE NUOVO – 18.1.1981 –  AMICO ZENO

 di Giorgio Torelli

Stamattina alle dieci, davanti agli alberi di Nomadelfia che hanno già in serbo le linfe per la primavera, mettono via il mio amico don Zeno. E la patria italiana, così percossa e orfana di padri, mi sembra ancora più disabitata e spoglia.

Io non so chi gli abbia dato retta, oltre quel pugno invitto di uomini, donne e ragazzi che abitano e fecondano Nomadelfia, “il posto dove la fraternità è legge”: era un tale turbatore di coscienze, con l’accento modenese, da dover subito essere dimenticato, pena lo scempio di qualunque vita organizzata secondo il secolo.

Ma, immaginandolo nella sua bara vegliata da confidenti, con quella chioma candidamente scomposta che lo rese un bel vecchio di pianura, senza più il basco ribaldo e il bastone da cammino che alzava a indicare il libero volo degli storni (“Alora, sti ben a sentir: voi – ve lo dico chiaro – non siete ancora arrivati alla fraternità degli storni!”), io metto a verbale che la sua fierezza cristiana resta una luce fissa nell’inverno degli spiriti. E ne patisco struggente nostalgia, anche se, di lui, mi restano le parole, gli echi, gli scritti, le telefonate all’alba di certi giorni quando gridava nella cornetta (io al buio del corridoio, scalzo e disorientato dagli squilli inattesi): “Uomo! Sveglia!” E ridevamo insieme perché la frase diventava bandiera e schioccava subito.

Era bello dargli il tu della consonanza (“Il lei è una moneta rumena”, improvvisava) e gioire quei suoi paradossi contadini, le metafore di natura, le parabole da potatore di vitigni, il bruciore della verità. L’afrore della testimonianza in parole appena colte. Ormai si sa bene chi è stato: un figlio di Dio piantato a gambe larghe nei solchi per cui ha sempre avuto pronti e prodighi i semi da sventagliare, un emiliano di gran spina dorsale, un depositario di certezze patite anzitutto sulla sua stessa pelle di umanista a tempo piano. Ma qui arriva il bello: adesso che ha rantolato, dicendo altre cose supreme e affidandole in retaggio, la sua voce spenta riamane un tesoro di sapienza e non ci sarà che chiudere gli occhi su quanto vediamo per ridarle il massimo dell’ascolto. O con lui, o smarriti e rincorsi sotto il firmamento.

Mi ricordo una sera con Zeno, davanti ai fuochi del tramonto che un cielo di ultimo agosto riverberava al cospetto delle dolomiti d’Ampezzo. Lui preceduto da quel suo naso carnoso e rotondo da fattore della Bassa, che ha conosciuto il tabarro col pelo di gatto soriano; io a dargli retta mentre l’ora di cena trascorreva e già ecco una stella al sommo di noi due. Portava il collare romano e un golfetto grigio sulle spalle. Consumavamo il giorno a dialogare con vigore: mai vino di vite m’era sembrato più genuino. Zeno, allegrissimo, aveva tenuto tanto in braccio Bobo, un cosino di dieci mesi, allora, tutto tenero. S’era anche posto in capo il berretto danese del mio bambino, un coso buffo a righe rosse e turchine, i pascoli attorno e poi il coro degli abeti e dei larici, i corvi in volo verso la Pusteria: un tempo di letizia.

E, adesso, proclamava con la mano alta e la voce ferma, inquietante: “Sai cos’è Nomadelfia? Te lo dico io, stai bene attento: è un tentativo di costruire insieme un Paese nuovo, un popolo di liberi che sia concreto esempio fra gli uomini di una vita fraterna. Cosa vuoi che siano venti secoli di cristianesimo? Sono meno di trenta uomini uno sull’altro, tutti sulle spalle di Cristo e, sopra, il Papa che benedice con le tre dita”.

E io a tentarlo: “Zeno, senti mò: e se fosse una favola?”

Come gli piaceva. Ricominciava tutto da principio altro che cena: “Favola non è. Per me la società non riuscirà a farcela fino a quando non avrà delle forze cristiane grosse, veramente cristiane, che non accettino il costume egoista, materialista: ma che stiano in mezzo al mondo, invece, come stanno l’aria e il sole. Le ideologie non portano da nessuna parte. E allora, caro mio, il caso è sempre quello: il mondo lotta e si contorce, aspettando che la verità lo pervada. Se, sulla madre Terra, lievita un fermento davvero capace di rivelare che Dio è in noi, che un rapporto economico può essere fraterno, che nessuno sfruttato e sfruttatore, neanche un uomo autenticamente proprietario di beni che appartengono soltanto al Signore, eh, allora, lasciamelo dire, in quel momento nasce un’onda. Nomadelfia è questa proposta: il fermento principia là. E io, vecchio d’antico pelo, sono sicuro della riuscita di Nomadelfia. Tant’è vero – dimmelo se hai fede – che la gente è scontenta dell’oggi e avverte l’insidia del domani. Sentano mò, allora: se vogliono riflettere su Nomadelfia, una città diversa e anche un popolo che ha ricominciato da zero, in quest’Italia, ci sono”.

Era notte fatta, ormai. Correva il remoto 1972. La china sarebbe stata rovinosa. Dissi io: “Cosa vuol dire il nome Zeno?” Rispose il mio amico: “Forestiero”.

E ricordo la mia sensazione: come di una porta che andasse spalancata per fargli luogo. Ora che lo sotterrano con amore, lo vedo sempre sulla porta. Quel grido del mattino incipiente, quel timbro da mietitore nella luce: “Uomo! Sveglia!”.

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