cultura

Arrabbiata – un racconto di Benedetta Bindi

“Non è essere arrabbiati che conta, e l’essere arrabbiati per le cose giuste”. Philp Roth

“Sei sempre arrabbiata Kristin! 

Studia hai la maturità quest’anno”.

La stessa frase ripetuta all’infinito da mio padre ogni giorno, per un lungo periodo. Più la pronunciava, e più mi appariva una persona orribile. Mi dicevo:”Possibile che non mi capisca? Per lui è tutto facile!”

Per molto tempo il mio motto è stato: “Camminare sulla corda è vivere. Ogni altra cosa è solo attesa”. Mi piaceva correre rischi. Mi stordivo di alcol e ingerivo qualsiasi sostanza riuscissi a procurarmi. L’eccesso era diventato una parte di me, dovevo sballarmi per non pensare. Dicevo spesso “si, ai ragazzi che mi giravano intorno. Ero quello che si dice : “una cattiva ragazza”, quella che nessuna madre vorrebbe come fidanzata del proprio figlio.

Il mio aspetto ingannava, dalla nonna danese avevo ereditato i capelli color rame, la pelle color latte e gli occhi verdi. Insomma a vedermi, tranne un tatuaggio che mi prendeva metà braccio destro e quattro buchi all’orecchio sinistro, potevo apparire una ragazza per bene.

Le mie labbra baciavano molto, ma sorridevano poco.

Avevano smesso di farlo, alla fine del quarto liceo, quando mia madre era morta. Il mio modo di camminare, lo sguardo basso, i modi bruschi mi avevano allontanato dalle amiche di un tempo. Tranne Marica, nessuna mi chiamava più. Ne soffrivo, ma invece di fare qualcosa, continuavo con il mio atteggiamento scontroso nei loro confronti. Ero arrabbiata con il mondo, e maggiormente con colui che mi era più vicino: mio padre. Ero convinta che avrebbe dovuto capire per tempo cosa si celava dietro i mal di pancia di mia madre. Lui è sempre stato un ottimista, un sognatore, uno che se stai male, o se qualcosa va storto ti da una pacca sulla spalla e dice: “Dai non è nulla, pensa positivo. Respira e vedrai passa tutto“.

Sempre zen, affascinava le mie amiche con il suo aspetto da ragazzino: magro, capelli lunghi e chiari, con quella gioia adolescenziale che indossava, come fosse un vestito. Difficilmente a casa mia si litigava. Sono cresciuta in una famiglia dove al posto delle urla, c’era la musica in filodiffusione e tanti abbracci. Guardavo spesso i miei genitori, perennemente innamorati, a volte pensavo che potevano stare bene anche senza di me, tanto si amavano. Ma le favole finiscono prima o poi. Mia madre si era ammalata, e prima che potessi capirne la gravità era già sottoterra. Per questo vedere mio padre senza nessuna reazione esagerata, come urlare di notte in preda agli incubi, o trovarlo ubriaco sul divano, o ammalato da stress, mi dava i nervi. Qualsiasi cosa avrei preferito alla sua compostezza. Io invece mi sentivo come quelle schifezze con le quali giocavo da bambina, una sorta di gelatina simile a muco che trovavi in contenitori colorati, comprati  nelle edicole. Era come se mi avessero svuotato del cervello e della colonna vertebrale. Mio padre un soldato in marcia, era scoppiata una bomba, ma lui ne era rimasto illeso.

Mi domandavo: “Allora non amava sua moglie?! Forse è innamorato di una delle sue alunne all’università?” 

Lo trovavo spesso con i palmi uniti in preghiera, mentre guardava un film o leggeva libro. Lui figlio unico come me, cresciuto in una famiglia in cui credere all’esistenza di Dio, era un fatto naturale come respirare, far figli, lavorare. Mia madre invece ha avuto due genitori ex sessantottini, figli dei fiori che le avevano insegnato che il caso domina sull’Onnipotente. Ma l’amore per mio padre l’aveva travolta al punto da farsi battezzare, fare la comunione e sposarsi in chiesa. 

Da piccola io ho nutrivo da subito un amore verso quel Dio che mio padre tanto elogiava. Quando è morta mia madre quella fiducia che riponevo in Lui è totalmente svanita. 

Una sera mentre mio padre guardava un documentario, l’ho afferrato per la giacca, avevo gli occhi rossi da quanto avevo pianto, e gli ho urlato: “Com’è possibile dimmelo? Lei non aveva fatto male a nessuno, perché lei? Perché? Il tuo supereroe infallibile bara! Credi ancora che ti ami? Rispondi!” 

Lui è rimasto muto, io sono uscita di casa sbattendo la porta e quella notte ho dormito fuori, in un letto di un tipo che nemmeno conoscevo. Avevo perso mese dopo mese, le parti migliori di me: la mia gioia, il mio l’ottimismo, la mia caparbietà, la mia serenità, la fiducia in me stessa e nel mondo. La mia anima era piena di tagli, abrasioni, che invece di sanarsi si erano infettate. Non studiavo più, io che volevo entrare a medicina e dovevo fare l’esame di maturità. Vagavo spesso per la città, sola o con qualche fidanzatino di turno. Duravano poco perché ringhiavo come una bestia, e per quanto fossi carina anche i ragazzi alla fine perdevano la pazienza. Ero maledettamente: “Arrabbiata!”

Quando una disgrazia è accaduta e non si può più mutare, non ci si dovrebbe permettere neanche il pensiero che le cose potevano andare diversamente. Ma io non ci riuscivo, e tutte le volte che guardavo una foto della donna che mi aveva cresciuto, non mi davo pace. Pensavo che i medici non avessero fatto abbastanza. E poi ogni giorno a combattere con quel viso sereno di mio padre: quando rientrava dal lavoro, quando mi cucinava e metteva le cose in tavola, o svolgeva i miei compiti perché io mi rifiutavo di farli. Ogni tanto scoppiavo in una scenata d’ira: rovesciavo un vaso, rispondevo con una parolaccia. Lui invece non perdeva la pazienza. Nessuno avrebbe resistito a non darmi uno schiaffo. 

Non è facile mettere insieme tutti i movimenti giusti, le particolari alterazioni della voce che sono indispensabili per falsificare un’emozione. Ci sono dei movimenti del volto, per esempio, che sono cruciali per fingere efficacemente la gioia. Questa bella recita che rappresentava, mi era sempre parsa così vera, che mai ho dubitato di quanto lui fosse infelice. Anni dopo, quando mi ha detto che non si sarebbe mai più accompagnato a nessuna donna, mentre io lo spingevo a farlo, ho capito l’entità del suo dolore, pari o superiore al mio. 

Tornando al mio periodo del liceo, alla fine sono riuscita a prendere la maturità, ma con un voto mediocre. Così con l’autostima sotto i piedi, ho pensato che la cosa migliore per me fosse lavorare subito al bar sotto casa. Mi mettevo la tuta e scendevo. Otto ore di cappuccini, spremute, tramezzini, chiacchiere sceme con i clienti. In piena estate, perché i turisti a Roma nei locali del centro sono sempre molti. Mio padre ci teneva che mi preparassi al test d’ingresso a medicina. Aveva affittato una casa in montagna, sapeva che adoravo passeggiare nella natura. Credeva che immersi nel silenzio, sarebbe stato più facile studiare. Gli avevo riso  in faccia e lui mi aveva risposto male per la prima volta: “Fa come vuoi, rovina la tua vita, io parto”.

Non c’è nulla che intensifica la rabbia, come l’affetto ferito.

Non ho risposto alle sue telefonate, e dopo tre giorni dalla sua partenza, sono andata in discoteca, ho messo in bocca una pasticca che un tipo che conoscevo  mi ha regalato e non contenta dopo un po’ ne ho comprata una seconda. Ballavo senza sosta poi non ricordo più nulla: buio.

A diciannove anni ho avuto un infarto. Mi sono svegliata e ho visto una finestra troppo grande per essere quella della la mia camera. Poi ho osservato le pareti verdine e la flebo al braccio. Ho avuto paura, ma poco dopo ho incrociato il volto di mio padre che si avvicinava a me. Era devastato, non riusciva più a fingere, ho sentito gli angoli della mia bocca sollevarsi all’insù. La stessa sensazione di quando prendevo il volo in altalena sotto la sua spinta e la felicità si confondeva con quel vuoto che provavo nello stomaco.

Ora dentro quelle pareti verdi dell’ospedale, trascorro anche dieci ore al giorno. Sono diventata un chirurgo. Se ricordo a mio padre il mio ultimo anno di liceo, fa un cenno con la mano, come a dire è acqua passata, come se per lui quei mesi terribili che gli ho fatto passare, fossero stati cosa da poco. Non ha mai buttato il suo copione.

Un genitore non lo getta mai.

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