cultura

Io e mia madre – un racconto di Benedetta Bindi


Quando ero adolescente, dicevo che io e mia madre eravamo diverse come la notte e il giorno. Lei ci rideva su e diceva: «Sì, sì… direi anni luce, amore mio!» Ma era vero.

Lei era bellissima da giovane, e lo è ancora adesso: esile, con occhi grandi e verdi. I miei invece sono neri come la pece. Non ho mai indossato una taglia trentotto, come ha fatto lei per una vita, e in certe mansarde – come quella di Alice, la mia migliore amica – fatico a stare in piedi, tanto sono alta.

Quando mi lamentavo di essere un gigante, mia madre mi diceva sempre: Â«Altezza, mezza bellezza.»

Questo può anche essere vero, ma solo fino a un certo punto. Non ha idea di cosa voglia dire entrare in una classe, o in qualsiasi altro posto chiuso, e sentirsi King Kong.

Di esile, io ho solo i polsi e le caviglie, perché le spalle sono larghe e forti come quelle di mio padre, e le cosce, il sedere, ben torniti, come li aveva mia nonna. Mia madre ha sempre detto che ho il fisico della sportiva, e che sono bella perché ho il seno grande e l’aria da guerriera. Eppure, per anni ho guardato le sfilate di moda in televisione. Mi piaceva vedere quelle fate androgine sulla passerella. Avrei voluto essere come loro.

Ai tempi del liceo mi mettevo spesso davanti allo specchio, stringendo tra le mani Sumo, il mio criceto grasso color champagne. Era incredibile quanto ci somigliavamo: entrambi solitari, con gli stessi occhi neri, piccoli come una capocchia di spillo, e silenziosi di carattere.

Io ho sempre somigliato in tutto a mio padre.

Lei, invece, piccola e chiacchierona, ha un umorismo travolgente. Quando rientravo a casa, a volte la sentivo cantare o ridere al telefono con Gianna, la donna di servizio. In realtà era più una dama di compagnia. Nel nostro appartamento regnava il disordine, e ogni tanto gomitoli di polvere si accumulavano sotto il mio letto, ma guai a criticare la domestica: mamma ci era affezionata come a una sorella. Insieme, loro due mi hanno cresciuta. Organizzavano le mie feste di compleanno. Non che non mi piacesse festeggiare, ma mi si confondeva il cervello a pensare cosa fare, chi invitare, che musica mettere, era un pensiero solo pensare cosa mettermi!

Più crescevo, più mi accorgevo di quanto fossimo diverse io e la mamma, anche nel modo di camminare: sofisticata ed elegante lei, scoordinata e un po’ gobba io.

Ero la più alta tra le ragazze della mia classe. Per fortuna, al secondo anno di liceo scientifico arrivarono Giulio e Marco, due gemelli alti un metro e novanta: io divenni la terza in altezza, per fortuna.

Se mio padre chiamava mamma “la mia bambolinaâ€, lei si arrabbiava. Le sembrava un nomignolo dispregiativo. Un giorno gli disse: Â«Dario, un tempo potevi chiamarmi così. Ti prego, non adesso. Non adesso che domani compio cinquant’anni.»

Lui smise da quel giorno e cominciò a chiamarla sempre “Ritaâ€.

A me dispiacque. Mi piaceva quel soprannome: “bambolina†le calzava a pennello.

Lei ha sempre chiamato mio padre con mille soprannomi, a seconda dell’umore: a volte “amore mioâ€, altre volte “criticoneâ€, “il professore†o “il teneroneâ€.

Mia madre non mi ha mai abbracciata troppo, ma mi ha sempre coperta di belle parole: «La mia bimba intelligente, la mia bimba bella come una statua greca, la mia scienziata, la mia mente brillante…»

Ha usato tanto le parole. Ha sempre espresso le sue emozioni, non ha mai trattenuto nulla.

Io sono l’opposto: silenziosa, tengo tutto per me,  ma ho sempre toccato le persone a cui voglio bene. È come se le mie mani avessero un bisogno viscerale di collegarmi a loro.

Ora che mia madre ha scelto di vivere in una casa di cura, dopo la morte di mio padre, quando vado a trovarla – anche se è nella sala hobby con gli altri – l’accarezzo e la bacio.

L’altro giorno una signora mi ha detto: «Ma quanto bene vuoi a tua madre? Mia figlia, nemmeno da piccola, è mai stata tanto affettuosa!»

Mamma continuava a fare il suo maglione ai ferri, come se nulla fosse. Poi è scoppiata in una sonora risata. Tutti si sono girati verso di lei e ha detto:

«Giorgia è sempre stata così. Ma non solo con me: anche con suo padre, con mia sorella, con sua cugina. Le sue mani devono toccare i corpi, è il suo dono. Per questo è diventata fisiatra. Però, chi non ha mai abbracciato era suo zio Leopoldo. Aveva un alito… pover’uomo! Dicevo a mio marito che suo fratello doveva farsi vedere da un medico! Poi è morto d’infarto, poveretto, ma secondo me aveva qualcosa di marcio nella pancia. Lasciava una puzza in tutto il salone quando ci veniva a trovare. Forse è per questo che non si è mai sposato: nessuna donna poteva reggere una cosa del genere!»

A quel punto, tutti gli ospiti della sala hobby sono scoppiati a ridere. Anche lì, mamma ha contagiato tutti con la sua allegria. Ricordo lo zio: l’alito pesante ce l’aveva davvero, ma perché mangiava molto aglio. Mamma però l’ha raccontato a modo suo, e ha fatto ridere venti persone. È il risultato che conta. Ha fatto mille lavori: maestra d’asilo, organizzatrice di eventi, insegnante d’inglese a domicilio… poi per dieci anni ha aiutato un’amica nel suo negozio di abbigliamento. Le clienti andavano soprattutto per parlare con lei. Mamma ha avuto un solo grande amore: mio padre. Ma tantissimi spasimanti, bella com’era. Ricordo che fuori da scuola c’era sempre qualche papà che le si avvicinava per chiederle qualcosa. Così anche al tennis. Io mi allenavo, ma con lo sguardo cercavo sempre lei. Ero gelosa in modo assurdo. E siccome sapevo che lo sarei stata anche con un uomo, per anni non mi sono innamorata.

In più, non mi sentivo bella.

Avevo paura che qualcuno, a passare troppo tempo con me, si accorgesse che ero fatta male, e che al mattino i miei occhi erano più piccoli della punta di uno spillo. Odiavo l’idea di condividere i miei silenzi. La sera amavo mangiare davanti alla televisione, seduta sul divano come un’adolescente, e addormentarmi abbracciata a Stella, la mia gatta grassa.

Per anni non mi sono mai svegliata tra le braccia di qualcuno. Ho avuto amici e amanti di passaggio. Poi, una volta, mi sono innamorata. Una volta sola, ma per sempre. All’inizio pensavo fosse un amore impossibile. Lui era il nuovo ortopedico bolognese, arrivato da poco nel mio ospedale, stimato quanto bastava per avere già la sua corte di belle tirocinanti con gli occhi a cuore. Alto, moro, con gli occhi verdi, e dodici anni più di me. Un giorno mia madre venne in ospedale per un problema al ginocchio. Fu lui a visitarla. Ricordo le loro risate dietro la porta. Per la prima volta, provai un moto di rabbia verso di lei.

Poi uscì dalla stanza, mi fece l’occhietto e mi sussurrò:

«Giorgia, questo è l’uomo giusto per te. Se non fossi vecchia e sposata, me lo sarei preso io…»

Si allontanò ridendo. Il dottore uscì e, sulla soglia, disse:

«Eccezionale tua madre. Una donna con un carisma fuori dal comune. Non ha nulla di grave, solo un po’ di artrosi.»

Un anno dopo ero sposata con lui.

Mi sono innamorata. Ho lasciato che un’altra persona mi amasse. Ho preso il rischio. È lì che la mia vita ha cominciato a funzionare, come una lampadina che finalmente si accende.

Oggi mia madre ha spento ottantatré candeline. L’ho presa alla casa di cura verso mezzogiorno, dicendole che avremmo mangiato con Valerio e zia Marta. Invece le avevo organizzato una festa a sorpresa. Come faceva lei con me, quando ero bambina.

Le candeline rosa gocciolavano sulla torta perché avevamo perso troppo tempo a cercare un telefono per la foto. Lei ha soffiato forte. Poi, senza pensarci troppo, davanti a tutti – anche se avrei voluto dirglielo in un altro momento – ho detto:

«Sono incinta.»

Quasi gridando. Hanno applaudito. Lei ha riso. Io ho pianto un po’. Poi le ho detto sottovoce:

«Scusami se non è arrivato prima, questo bambino. Non arrivava.»

Lei ha alzato le spalle:

«Ma sei matta? Va benissimo così. Essere nonna troppo presto invecchia. E poi io odio fare la baby-sitter. Non ti ho mai chiesto niente perché volevo sistemarmi prima io.»

Poi ha riso di nuovo, quella sua risata grossa e contagiosa. Io l’ho stretta forte, e le ho detto che, se mai avesse cambiato idea, a casa mia c’era sempre una stanza libera.

Ma so che non accetterà mai.

Per questo l’ho abbracciata ancora, più forte, per non farla scivolare via.

Perché a volte le mani tengono meglio delle parole.

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