cultura

Racconto il giorno in cui non ti ho perso – di Benedetta Bindi


«Io non ti amo più.»

Quella frase mi rimbalzava nella testa come un oggetto contundente.
Come il tagliacarte di mio nonno Augusto, capace di ferire davvero.
Ogni volta che  la ripetevo, produceva nel mio petto un dolore sordo, profondo, .
Un dolore che non avevo mai provato prima.

Perché, Luisa?
Perché non volevi più vivere con me, fare due o tre figli — magari adottarne due, per non essere troppo egoisti — costruire quella famiglia che avevamo sognato?
Una casa piena di voci, risate, come quella di Luca e Giorgia, i nostri vicini.
La famiglia rumorosa e meravigliosa del piano accanto, con i loro sei figli e le scarpe sempre in fila, fuori dallo zerbino, come all’ingresso di un asilo.
Tre femmine, tre maschi. Tutto in equilibrio.

Pedalavo forte, con la sua voce nella testa.
«Io non ti amo più.»

Era da  otto giorni che viveva a casa di sua madre, e mi mancava da matti.
Pedalavo come se volessi staccarmi da quel pensiero.
Finché l’odore del mare non mi arrivò alle narici.
Ero arrivato al lungomare.

Non provavo più rabbia.
Solo stanchezza, e una malinconia che pesava sulle spalle come piombo.
Fu in quel momento che la vidi.
Luisa camminava accanto a un uomo.

Lui era vestito di scuro, con un cappotto elegante.
Parlavano fitto. Li osservavo da lontano: le mani che si muovevano, le parole che si leggevano appena sulle labbra.
Sembravano una coppia.

Luisa stava mostrando dei fogli all’uomo.
Li tirava fuori da una cartellina, lui li studiava, indicava qualcosa, parlava.
Poi lei cominciò a piangere.

E lui la abbracciò.

Quel gesto — quell’abbraccio — non aveva nulla di fisico.
Era una fenditura.
Qualcosa si spezzò dentro me. Non in modo drammatico, ma definitivo.
Era il lutto di ciò che non sarebbe più stato.

Stavo per crollare, quando una voce lieve mi attraversò:
«Ciao Francesco! Sei pensieroso… problemi al lavoro?»

Giulia.
Un’apparizione solare, come a ricordarmi che il mondo continua, anche quando dentro si è fermi.

Avevamo persino pensato che un giorno potesse fare da babysitter ai nostri figli.
Se mai li avessimo avuti.

Scrollai la testa, come a dire che non era nulla, non mi uscivano parole. Era come se il mio cervello fosse andato in folle e non riuscisse ad ingranare la marcia. Girava a vuoto.

«Salutami Luisa!» disse lei, per non prolungarmi l’imbarazzo,  prima di sparire di nuovo nella sua corsa leggera.

Mi voltai verso il mare.
Luisa continuava a parlare con quell’uomo.
Non restai.
Non per orgoglio, non per paura.
Ma perché il dolore, a volte, va rispettato nel suo silenzio.


Quella sera, Luisa rientrò a casa.

Io ero sul divano, una pizza davanti, la birra mezza calda.
Lei si avvicinò piano, quasi chiedesse permesso.
Mi guardò e sorrise, come si sorride a un vecchio amico mai dimenticato:

«La Napoli? Tu sei davvero disperato per ordinare la pizza sbagliata… odi le alici!»

Non me n’ero nemmeno accorto.

Poi, la sua voce si fece nuda:
«Scusami per tutto. Ho pensato di avere una malattia… qualcosa di brutto.
E ho creduto che lasciarti fosse un modo per proteggerti.
Ma sto bene. È passato.»

Io non chiesi nulla. Ripensai alla cartellina, al suo pianto, all’abbraccio…

La baciai.
E quella notte concepimmo Veronica.


Due anni dopo arrivò Benedetta.
Poi vennero Matteo e Ginevra, due gemelli che adottammo insieme, proprio come avevamo sognato.

Ora, ogni sera, davanti alla nostra porta, ci sono scarpe ovunque.
Piccole, grandi, spaiate. Una confusione perfetta.

Perché l’amore non è ordine.
Non è simmetria.

L’amore, come il mare, sembra andarsene.
Si ritira.
Ma non è mai davvero perduto.
Torna.
A volte sotto nuove forme.
Ma torna.

Sempre.

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