cultura

Prima che sia troppo tardi – un racconto di Benedetta Bindi

 “Per coraggio di abnegazione la donna è sempre superiore all’uomo, così come credo che l’uomo lo sia rispetto alla donna per coraggio nelle azioni brutali.”
MAHATMA GANDHI

“Ero innamorata di lui, sì lo posso affermare, e non me ne vergogno. Non era violento, ma: “Educato”. Un termine usato da mia nonna, quando l’aveva visto la prima volta sotto casa mia. Ora sembra l’aggettivo più ridicolo, appoggiato su di lui, dopo quello che mi ha fatto. Però posso giurarlo, Marco era premuroso, affettuoso. Mi veniva a prendere sotto scuola, mi avvisava di primo mattino, con un messaggio: “Amore buon giorno, aspettami alle due al semaforo”.  Poi ha iniziato a venire di sorpresa. Mi diceva: “Avevo mezz’ora libera, ne ho approfittato per vederti anche solo dieci minuti. I più belli della giornata”. Nessuno mi aveva mai parlato così. Lui è entrato nel mio cuore, come un sonnifero, piano, piano, poi un giorno ho capito di esserne profondamente innamorata.

Un giorno Caterina, la mia migliore amica, mi ha detto: “Marco ti controlla, ti guarda con due occhi, l’ho notato l’altro giorno, quando eri vicino a Eugenio mentre scendevi le scale, e ridevi alle sue battute. Lui era fermo all’angolo della strada, nella sua auto gialla, aveva il finestrino del vetro abbassato, il gomito appoggiato fuori. Mi hanno colpito i suoi occhi, quelli di uno che si sente derubato. Svegliati amore! La sua è una gelosia che piega le gambe, e gli toglie il sonno. Viene di sorpresa per vedere se hai qualcuno”.

Io le avevo risposto che lui le dava questa impressione, a causa degli zigomi alti, la mascella marcata, e l’aspetto serio, ma che aveva un cuore grande. Poi le dissi che ero felice che per lui fossi importante, al punto di controllarmi. Caterina ricordo, alzò le spalle e mi disse: “Fai come vuoi, e non dirmi che non ti avevo avvisata. È morboso, è pericoloso! E tu sei uscita fuori di testa

Era vero, ma ero troppo innamorata.

A lei non dicevo che Marco, aveva iniziato a farmi l’interrogatorio, su cosa facevo, o chi vedevo, quando lui era al lavoro. Soprattutto alla mia amica non avevo raccontato, cosa mi aveva fatto pochi giorni prima delle vacanze di Natale.  Marco non mi avvisava più, se passava a prendermi, io appena uscita da scuola, guardavo sempre il posto dove solitamente parcheggiava. Quel giorno era lì, fermo con le quattro frecce, io felice ricordo gli ho sorriso, e ho attraversato la strada. Salita in auto, lui era serio, le sue sopracciglia convergevano quasi al centro, segnandogli sopra al naso due rughe parallele come fossero un autostrada.  Non mi ha dato nemmeno un bacio, e mi ha detto: “Ma chi è quello scemo alto? E quello con i capelli rasati, che scendeva con te le scale? Si sente un fico, e aveva la bava alla bocca quando ti ha salutato”. A quest’ultima frase, mi ha afferrato il collo, da dietro, facendo molta pressione, le sue dita mi hanno tirato i capelli ed ho protestato: “Ohi mi fai male!” Poi mi ha baciato e così ho dimenticato tutto, anche di esistere, tra le sue braccia.

Però quella giornata, in una parte di me, l’avevo archiviata. E spesso quando guardavo negli occhi Caterina, la ricordavo.  Lei ci ha insegnato in classe, il segno di soccorso in caso di aggressione, il: “Signal for help”. Lo trovavo ridicolo.  Io ero ridicola! Pensavo che la violenza fosse qualcosa che accadeva, ma lontano da me, come la vecchiaia. Invece in qualche modo, ci ero già dentro.

Marco mi faceva spesso dei regali. Ha la passione per i vestiti stretti e gli stivali. Me ne ha comprati di belli, ma voleva li indossassi solo quando uscivo con lui. Stessa cosa per il trucco, non voleva lo mettessi a scuola, diceva che il viso acqua e sapone mi dava un aspetto più serio, che avrei fatto bella figura con i professori. Al fondotinta non rinunciavo, ma il rimmel e il rossetto non lo mettevo più. Pensavo che in fondo avesse ragione lui. Ero persa al tocco delle sue mani grandi, dei suoi racconti, e dei sedili della sua auto gialla. Erano scaldabili, io ero abituata al ghiaccio del sellino del mio motorino. Giulia la fica della classe, rosicava quando vedeva Marco fuori scuola, lei aveva gli occhi azzurri, i capelli biondi, il corpo perfetto, ma non aveva lui. Io sì. La sua auto faceva girare la testa a mezza scuola. Io ci salivo dentro, e non avevo più difetti. Il mio sedere non mi sembrava piatto, se piaceva a lui, le mie gambe non erano troppo muscolose, se piacevano a lui.  Il mio seno grosso, pesante, che scendeva giù, non era da rifare, se per lui era perfetto. Marco non convinceva mia madre, mi diceva che dovevo stare con un ragazzo della mia età. Vedeva che non uscivo più con le mie amiche, ma solo con lui, non le stava bene.  Voleva che andassi a scuola in motorino, come avevo sempre fatto. Mi diceva di essere indipendente.  Io invece da quando lo frequentavo, prendevo due autobus, solo per poter tornare con lui in macchina. Mi svegliavo alle sei e mezza, io che sono una pigrona, ma l’amore ti sconvolge. Mio padre invece diceva che Marco era un lavoratore. Aveva detto una sera a cena: “Meglio uno più grande con sale in zucca, che un ragazzino appiccicato tutto il giorno al telefono! Il suo ragazzo è uno sveglio, e poi Paola mica devono avere tutti la Laurea. Tua madre è fissata, ma quanti con un foglio di carta in mano non trovano lavoro? In Italia è pieno di camerieri laureati! E poi se esce meno con le amiche meglio, di questi tempi…”

Invece dovevo dare retta a lei, che aveva capito che il mio ragazzo non mi proteggeva dai pericoli, perché lo era lui.

Ho trascorso due giorni in casa piangere, fino a quando non mi sono decisa di venire da voi, qui alla polizia, e dirvi tutto. Guardate cosa ho sulle braccia, lividi, sembro un giaguaro. Voglio denunciarlo, eh sì. Tre giorni fa è venuto sotto scuola, come sempre.  Mi aveva detto che partiva due giorni per lavoro, che ci saremmo visti sabato. Invece è arrivato, e si è messo in un punto dove io non lo potevo vedere. Con Pietro siamo amici da quando siamo bambini. L’avevo preso a braccetto, al suono della campanella, e lo stavo accompagnando alla metro, che dista due minuti dal Liceo.  Poi ho preso il motorino e sono corsa a casa. Arrivata sotto il portone, Marco mi ha telefonato, mi ha detto di non salire, che stava arrivando. L’ho atteso al parchetto sotto casa.  Quando è uscito dalla sua auto sorrideva, mi ha detto che mi portava a  prendere un gelato,  che la sua  partenza era stata rimandata alla sera. Mi ha preso un cono cioccolato e panna, il mio preferito, sa che a volte pranzo solo con quello.  Lui non ha preso nulla e si è riemesso alla guida, mi ha portato in una zona che non conoscevo, con la scusa di farmi vedere un palazzo in costruzione, opera della ditta dove lavora.  Ha spento l’auto in una strada sterrata, sullo sfondo c’ era il cantiere, e mi ha detto: “Lecchi bene il gelato schifosa”. Io non sapevo se scherzasse o fosse serio, poi mi ha urlato contro di tutto, che me la facevo con Pietro, che sculettavo come una che la dà a tutti.  Mi ha stretto i polsi, al punto che mi sembrava di non averli più, poi mi ha dato dei pizzichi, così forti da staccarmi la pelle. Il cono mi è scivolato dalle mani, ed è finito sul cambio dell’auto. La pelle bruciava, mentre lui ha imprecato qualcosa, e cercava di pulire il cioccolato con dei fazzoletti. Io ne ho approfittato per scappare.

Faccio atletica da quattordici anni per fortuna, ho aperto la portiera e sono volata, più veloce del vento, verso il cantiere. Non è riuscito a prendermi. Marco va in palestra, è una massa di muscoli, non bastano per essere veloci, per quello ci vuole allenamento, ed io lo ho. Ringrazio mamma, e la sua fissazione per lo sport. Forse mi ha salvato la vita. Sono arrivata dove gli operai lavoravano, ho fatto il segno con la mano, che mi aveva insegnato Caterina, un tipo con il caschetto si è avvicinato a me, io l’ho abbracciato stretto, piangendo. Gli ho detto che il mio ragazzo mi aveva picchiato. Lui ha avvisato gli altri operai, ha preso la sua auto e mi ha portato a casa. Era un signore dell’età di mio padre, in macchina io singhiozzavo senza fermarmi, e lui era silenzioso.  

Sotto casa, mi ha detto una frase: “Mia figlia è stata due anni con un tipo violento. Ricorda c’è un momento che devi decidere: o sei la principessa che aspetta di essere salvata. Oppure lo denunci e ti salvi da sola”. L’ho ringraziato, ma non gli ho detto che il mio aggressore era il nipote del suo capo. Mi era morto tutto, anche la voce. A casa ho finto un virus intestinale, e mi sono chiusa in casa per due giorni. Per lo stress mi è venuta anche la febbre.  Non ho risposto alle chiamate e ai messaggi di Marco.

Oggi compio diciott’anni, stasera vado a festeggiare con le mie amiche, e i miei amici. Ma ho paura, devo dirlo, lui magari potrebbe seguirmi. Ecco vi faccio vedere la sua foto, che abbiate ben chiaro il suo volto, prima che sia troppo tardi, e possa commettere qualcosa di qui  possa pentirsi. Io li voglio bene, ma lo devo dimenticare”.

Nella stanza del commissariato di polizia, un uomo e una donna, hanno ascoltato il monologo di Rita in silenzio. 

La poliziotta le sorride, si avvicina a lei, le tira su la maglietta a maniche lunghe, guarda i segni sul braccio e le dice: “Dimenticalo anche se dovesse leccarti i piedi, e chiederti perdono. Quello che tu hai scambiato per protezione era commercio: una bella auto, i soldi. Non ha altro Marco, è un insicuro, un debole. Hai fatto bene a denunciarlo, come ti si riavvicina ci chiami. Ricorda che il colore dell’amore è rosso, non viola, come i segni che  hai sulla pelle. Ti sei fatta un bel regalo di compleanno ragazza a venire qui, a te, e a tutte le donne”. L’abbraccia mente Rita piange, e il poliziotto le guarda. Poi la donna all’orecchio le dice: “La vita è piena di lacrime e felicità, sì forte, e condividi il tuo coraggio”.

Quando Rita esce dal commissariato, tira un vento gelido, il cielo è terso. Mette il casco, toglie il blocco alla ruota del motorino, e parte. Un’ondata di felicità, la travolge e canta.  Va sotto scuola, si siede sul muretto di fianco all’entrata e con le cuffie nelle orecchie, ascolta la musica e attende….

No Marco no, ma Caterina.  Muore dalla voglia raccontarle tutto, come quel giorno quando aveva vinto i 100metri regionali. Ora è arrivata prima a un’altra gara, la più importante, quella della vita.

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