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E se la terapia intensiva fosse un luogo di grande umanità? Che cosa sono le Medical Humanities

Sono un medico dal 2001 e da sempre lavoro a Niguarda, Milano, come Anestesista Rianimatrice, prima in sala operatoria, e poi da circa 15 anni in Terapia Intensiva. Il mio lavoro è anche la mia passione, il mio talento. Il mio reparto è il mio orgoglio perché è “diverso”. La nostra differenza risiede nell’avere scelto di creare un connubio forte tra l’ipertecnicismo che caratterizza tutte le Rianimazioni e lo sguardo umano che invece caratterizza solo pochi angoli di sanità. Ma per parlare della nostra scelta e del nostro mondo, è doveroso, e spero affascinante raccontarvi, almeno in parte, la storia della medicina: dalla nascita allo sviluppo per passare attraverso la crisi ed approdare, forse, ad una rinascita che noi cerchiamo di incarnare.

  • La nascita: l’arte medica occidentale è una scienza antica di cui Ippocrate viene considerato il suo fondatore ufficiale. La medicina ippocratica nasce nel V secolo a.C. come pratica terapeutica fortemente individualizzata che richiede un rapporto interpersonale intenso e globale e dove l’esplorazione della malattia avviene nei suoi diversi aspetti, non soltanto somatici, ma anche psicologici ed ambientali. La pratica ippocratica è dunque legata indissolubilmente all’esperienza del singolo malato che il medico deve saper comprendere nella sua unicità, interezza e complessità. In altre parole, per Ippocrate e per la sua scuola, il malato con i suoi pensieri ed emozioni era al centro. Era convinzione saggia e comune che il malato andasse innanzitutto ascoltato.

  • Lo sviluppo: nel corso del tempo, tuttavia, la medicina ha progressivamente perso questa sua costitutiva vocazione all’approccio olistico del malato, riducendo il suo intervento alla sola conoscenza della malattia concepita come entità biologica e divenendo la medicina moderna, appunto riduzionistica. Il 1600 con Galileo, Newton e soprattutto Cartesio ha gettato le basi per una medicina riduzionistica e per una concezione dell’uomo meccanicistica, vale a dire: la malattia è tutto ciò a cui riduciamo la nostra attenzione perché l’uomo è una macchina scomponibile e lo scopo è dividerlo in organi per sostituire quelli guasti. In un’ottica riduzionistica e meccanicistica, la relazione medico-paziente è molto sbilanciata: il medico paternalista detiene il sapere e decide per il paziente. Questo tipo di medicina ha caratterizzato l’abbandono dello sciamano medioevale per approdare al secolo dei lumi ed ha visto degli indubbi vantaggi: ci ha permesso di far nascere con Koch e Pasteur i laboratori di microbiologia e gli antibiotici, ci ha permesso di attraversare due guerre e di diffondere le vaccinazioni di massa, ci ha permesso di inventare il metodo scientifico con il suo famoso rigore evidence based. Eppure, questo modello cartesiano di medicina meccanicistica e riduzionistica oggi non tiene più.

  • La crisi: la crepa inizia intorno al 1930 ed avviene ad opera di nuove teorie fisiche, nuovi studi antropologici e nuove correnti filosofiche. La fisica spalanca la strada alla complessità attraverso due teorie: la teoria quantistica e la teoria della relatività. La prima teoria dimostra che le particelle subatomiche, ossia le particelle che risultano dall’estrema scomposizione e riduzione della materia, non sono semplici e singoli mattoni, incapaci di interagire e totalmente sostituibili. Al contrario, le particelle subatomiche sono entità probabilistiche inscindibili dal nucleo che compongono ed anche inscindibili dal cosmo di cui l’osservatore fa parte. Le particelle non sono pezzi di materia ma sono entità di energia che innanzitutto si mettono in relazione tra loro. La seconda teoria invece, propone di interpretare spazio e tempo come entità soggettive, massa ed energia come due versioni diverse della stessa realtà. La luce diventa allora massa di particelle ma anche energia di onde. In questa ottica, il cosmo non è un tutto organizzato, statico e divisibile in mattoni ma è un tessuto energetico, mutabile, dinamico con parti interconnesse. Peraltro, nel mondo subatomico, le interazioni tra le parti sono più importanti delle parti stesse. Da un punto di vista antropologico, gli studi degli anni ’80, ad opera soprattutto della Harvard Medical School, della quale Klienman è uno dei più prestigiosi esponenti, affermano che l’uomo è il prodotto del suo tempo, così come le sue malattie, le sue sofferenze, i suoi tentativi di guarigione. Il malato va inserito nella sua cornice culturale. Quindi ogni paziente va conosciuto nella sua prospettiva biomedica al fine di cogliere la patologia organica, che Kleinman definisce disease, ma non solo. Ogni uomo va indagato anche sul fronte di come lui percepisce la malattia, ciò che Kleinman chiama illness. L’illness è l’esperienza di malattia, ossia è il modo in cui malato e famiglia, percepiscono, vivono, definiscono, spiegano, valutano la malattia. Finalmente il paziente torna al centro della scena e si prova ad abbandonare una medicina disease centered a favore di una medicina patient centered. Da un punto di vista filosofico, arriva l’ultima spinta al cambiamento: la scuola fenomenologica di Hussler. La teoria di Husserl (1913), il fondatore della fenomenologia, afferma che nel cercare di conoscere e capire, bisogna andare oltre le apparenze. Detto diversamente ogni cosa ha la sua apparenza e poi ha qualcosa che va oltre l’apparenza a cui diamo il nome di trascendenza. Ed è nella trascendenza che si trova non la spiegazione ma il significato. Per la fenomenologia, un conto è spiegare un conto è comprendere un fenomeno. Per spiegare serve uno scienziato, per comprendere serve un uomo. Così una malattia se viene guardata in ottica fenomenologica non è mai solo un’alterazione dei parametri fisiologici ma può essere la frenata per cui una madre non ha più la forza di accudire i suoi figli, può essere la sofferenza che fa sentire meno bella una donna dopo la mastectomia, può essere una condanna, può essere un’occasione, può essere un momento di preghiera, può essere un cumulo di rabbia. La malattia, non è mai tutta lì. Se si prova a trascendere le notizie organiche si può intravedere il senso della malattia. Per la fenomenologia, andare oltre le cose vuol dire dare loro un senso. Per aiutare l’altro a capire i suoi significati delle sue esperienze serve un dialogo, serve una relazione sicura, serve uno spazio non giudicante in cui l’altro si racconti, si narri. In quest’ottica, la relazione è alla pari perché chi ascolta, chi riceve rimane trasformato da ciò che accoglie. Spiegazione e comprensione non sono due metodi opposti, sono invece due metodi complementari: la spiegazione della disease e la comprensione dell’illness dovrebbero coesistere nello stesso sanitario [15]. La comprensione però, a differenza della spiegazione, ha necessariamente bisogno di un incontro autentico perché necessita dell’incontro tra due orizzonti di comprensione: il medico deve tornare ad essere un uomo vicino ad un altro uomo.

  • La rinascita: la medicina ipertecnica con medici paternalisti incapaci di ascoltare e circondati da pratiche legali di insoddisfazione prova a cambiare abito attraverso il movimento delle Medical Humanities. Negli USA, dopo la rivoluzione fisica-antropologica-filosofica della seconda metà del secolo scorso di cui detto pocanzi, a partire dagli anni ’70 si delinea un movimento che prende il nome di Medical Humanities e che alla fine, ingloberà diversi concetti e diverse applicazioni tra cui l’umanizzazione delle cure, la medicina patient centered, la narrative based medicine. Il substrato culturale dal quale originano le medical humanities è quello religioso: “un piccolo gruppo di assistenti spirituali e cappellani di campus universitari e facoltà di medicina, di diverse confessioni religiose, erano preoccupati dalla tendenza, sempre più accentuata in medicina, a separare il fattore tecnico da quello umano, inteso in senso più ampio e comprensivo della risposta ai diversi bisogni della persona malata”. La preoccupazione pedagogica circa l’educazione dei futuri medici, porta alla creazione del Committee on Medical Education and Theology. A questo primo nucleo, ben presto si uniscono alcuni medici, tra i quali Edmundo Pellegrino, figura di spicco della bioetica internazionale. Così dopo alcuni mesi nasce nel 1968 la Society for Health and Human Values. In pratica era successo che intorno agli anni Sessanta-Settanta, la medicina abbia cominciato a chiedersi dove era finito l’uomo, parcellizzato in organo, fibra, cellula da studiare dietro un microscopio. “Ci si chiede dove sia finito l’uomo che sembra essere stato ridotto solo alla malattia da guarire. In altre parole, ad un certo punto del suo sviluppo, la medicina si è resa conto di aver perso di vista l’uomo nella sua complessità e globalità e quindi ha cercato di recuperarlo attraverso le opere umane. Pertanto, ad un certo punto della storia, la medicina per ritrovare l’uomo ha scelto il modo più creativo e complesso: appassionare i medici all’uomo ed a tutto ciò che ha a che fare con l’uomo”. Fare medical humanities vuol dire spingere i medici a leggere filosofia, partecipare a dibattiti bioetici, frequentare le mostre, commuoversi di fronte ad una scultura, emozionarsi alla fine di un romanzo. Fare medical humanities vuol dire far entrare psicologi e psicoterapeuti nelle varie equipe sanitarie perché monitorizzino il benessere degli operatori. Fare medical humanities significa insegnare un lessico nuovo in cui il medico impari ad esprimersi per dare bad news in maniera empatica e delicata. Fare medical humanities vuol dire mettere al centro ciò che per il paziente conta, dai desideri alle paure, fino a delineare il suo progetto di vita ed il suo orizzonte di morte. Fare medical humanities è un modo umano e coinvolgente di fare medicina: è una cordata tra persone che si mettono a disposizione.

Bene, le medical humanities sono entrate nel mio reparto di rianimazione circa una quindicina di anni fa e l’impatto è stato deflagrante. Da un punto di vista pratico, senza mai rinunciare al progresso ed al rigore scientifico fatto di studi e macchine e rimanendo una delle rianimazioni in Italia con il maggior tasso di sopravvivenza a lungo termine (dati Gi.Vi.Ti):

  • abbiamo aperto l’orario di visita dalle 14 alle 22 in modo che per le famiglie fosse possibile vivere, lavorare e venire a visitare il loro caro senza stravolgere ogni loro giornata
  • abbiamo assicurato un luogo accogliente ove ogni giorno le famiglie ricevano notizie sull’andamento del loro parente ricoverato senza alcuna attenzione all’orologio convinti che il tempo della comunicazione sia tempo di cura
  • abbiamo creato stanze con soffitti e pareti, coperte da dipinti rilassanti e rassicuranti
  • abbiamo imparato l’arte dell’ascolto empatico cercando di cogliere le emozioni ed i significati del paziente e dei parenti
  • abbiamo attrezzato il nostro reparto per l’ingresso di visitatori piccoli e fragili perché i figli dei ricoverati non abbiamo mai la sensazione di vuoto e strappo
  • abbiamo portato in reparto la pet therapy realizzata con animali addestrati ma abbiamo portato in reparto anche gli animali dei pazienti per brevi visite
  • abbiamo dato la possibilità ai parenti di creare medicina narrativa ossia di scrivere su un diario paure e speranze di un tempo sospeso
  • abbiamo facilitato la lettura di poesie e di romanzi vicino ai letti dei malati
  • abbiamo coinvolto estetiste volontarie che possano prendersi cura dei corpi delle nostre malate
  • abbiamo posizionato oggetti personali accanto ai nostri pazienti perché la rianimazione fosse un po’ più casa con disegni di nipoti e palloncini di fidanzati
  • abbiamo fatto pace con il tabù della morte e ci sforziamo sempre di renderla un’esperienza ricca di significato, sacralità e ritualità
  • abbiamo seguito e seguiamo regolarmente corsi, filosofi ed eticisti per imparare a capire l’uomo nella sua complessità.

Abbiamo fatto e facciamo ogni giorno questo ed altro sia per mettere al centro il malato e non la malattia sia per rimanere noi uomini appassionati alla complessità. Abbiamo scelto di curare l’umano anche quando la guarigione dalla malattia è impossibile. Da tutto questo, noi stessi siamo stati  modificati diventando uomini più attenti al punto di vista dell’altro, più aperti alla dialettica nelle nostre famiglie, più disposti a non giudicare mai lungo questa magnifica avventura che si chiama vita.

Bibliografia

  • Parodi C, 2002, La storia della medicina. Einaudi, Torino
  • Capra F, 1982, Il punto di svolta. Feltrinelli
  • Good BJ, 1994, Narrare la malattia. Lo sguardo antropologico nel rapporto medico-paziente. Edizioni di Comunità, Torino
  • Zannini L, 2008, Medical humanities e medicina narrativa. Cortina Editore
  • Watzlawick P, 1984. La realtà inventata. Feltrinelli
  • Bruner J, 1990. La ricerca del significato. Bollati Boringhieri
  • Levenstein LH, The patient centered clinical method; Family Practice, 1986:3;24-30
  • Kaplan SH, Greenfield S, Ware JE, Assessing the effects of physician-patient interactions on the outcomes of chronic disease; Medical Care, 1989;27:110-127
  • Kleinman A, 1978, Alcuni concetti ed un modello per la comparazione dei sistemi medici intesi come sistemi culturali. Antropologia Medica: i testi fondamentali. Cortina
  • Fontò G, Psicoterapia e fenomenologia. Apeiro
  • De Monticelli R, 1998. La conoscenza personale. Introduzione alla fenomenologia. Guerini
  • Hunter KM, 1991, Doctors’ stories. The narrative structure of medical knowledge. Princeton University Press
  • Giarelli G, 2005. La svolta narrativa: l’incontro clinico come negoziazione di significati. Franco Angeli, Milano
  • Moja E, Vegni E, 2000. La visita medica centrata sul paziente. Raffaello Cortina
  • Rogers C, 1968. La terapia centrata sul cliente. Martinelli
  • Levenstein JH, 1986. The patient centered clinical method. Family Practice
  • Bert G, quadrino S. Parole di medici. Parole di pazienti. Counselling e narrativa in medicina. Il Pensiero Scientifico Editore
  • Dowie R, 2001. Medical humanities, means, end and evaluation. BMJ Books, London
  • H. Burchardi, Let’s open the door. Int Care Med, 2002:28:1371-1
  • Presidenza del Consiglio dei Ministri, Comitato Nazionale di bioetica, 2013

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