cultura

La lettera – un racconto di Benedetta Bindi

“Posso scrollarmi di dosso tutto quando scrivo; i miei dolori scompaiono, il mio coraggio rinasce”. Anna Frank

Non ci sono misure intermedie in amore, per questo ho detto a mio marito di andare qualche giorno da Giacomo, senza alcuna esitazione. Per lui trascorrere del tempo insieme ai suoi amici sulle Dolomiti, è come portare un bambino alla sagra del cioccolato.

Mi viene in mente il suo volto dopo il mio incoraggiamento a partire, d’una felicità così dirompente, come quando segna la sua squadra del cuore. Me l’immagino tutti e quattro, amici dai tempi liceo, con una colazione schifosamente calorica sul tavolo della cucina, mentre dicono: “Poi si brucia”, addentando una fetta di strudel, magari con l’aggiunta della panna, sollevati che le loro mogli non siano lì a controllarli. Ridicoli nelle loro tutine colorate che evidenziano la pancia, mentre loro pensano di apparire più snelli. Escono di casa con gli occhiali a specchio, i caschetti, pedalano per ore, e terminano la giornata in una baita a bere birra, e mangiare polenta e salsicce, rovinando tutta la fatica fatta nella giornata. Torneranno forse ingrassati, ma maledettamente contenti.

Anche a mio figlio ho detto di partire, l’hanno invitato al Circeo, il giorno dopo che mio marito è andato in montagna. Mi aveva comunicato la cosa senza troppa convinzione, ed io avevo capito il perché. Gli ho detto: “Parti che aspetti!” Edoardo voleva attendere il ritorno del padre, da quando ci sono stati dei furti in zona, temeva di lasciarmi sola in questa grande casa di campagna. Quando è andato via mi ha detto:” Mamma non avrai paura? Sei sicura?” In effetti non mi sentivo tranquillissima, ma ho trattenuto qualsiasi emozione come solo una mamma sa fare, per proteggere suo figlio. Nel caso di rumori sospetti, avrei chiamato il vicino, ci conosciamo da vent’anni. Mentre sulla soglia di casa, con uno zaino gigante in spalla, mi ha baciato, per poi dirigersi alla corriera, ho pensato a quanto sono
fortunata.

La premura di mio figlio è fuori dal comune, spesso si preoccupa per me, come se si invertissero i ruoli. Mi toglie dalle mani la sigaretta se mi vede fumare, mi dice di non prendere il motorino la sera, perché sa che odio mettere gli occhiali con il casco, e spesso non lo faccio. Quest’anno è stato promosso per il quarto anno consecutivo, e non è una cosa così scontata visto i tempi. Non volevo accorciare i suoi giorni di vacanza, se li meritava tutti. Io poi avevo bisogno di un’immersione di pace. Sono due anni che mi mancano momenti tutti per me, da quando mia madre per problemi fisici, si è trasferita a vivere da noi. Ora che è andata con mia sorella in montagna, il pensiero di svegliarmi quando voglio, cucinare o non farlo, rimanere in tuta anche tutto il giorno, dedicarmi alle piante, annaffiare il prato, leggere i miei libri, ascoltare la musica che mi piace, è un’ idea che mi allettava parecchio. Così l’altro giorno, in pieno agosto, quando mi sono trovata sola a casa, circondata dal silenzio ho respirato profondamente. Tutto intorno a me era in ordine. Il mio cane Toni dormiva nella sua cuccia, gli uccellini cinguettavano e ho detto: “Che meraviglia!”

Poi subito dopo ho pensato al loro rientro: scie di disordine, il maggior confusionario che è mio marito, mio figlio che lo segue, la nonna borbotta, il cane abbaia perché Edoardo lo pungola di continuo. E poi gli amici di mio figlio, che qui non mancano mai, perché io sono la mamma buona. Ci sono ragazzi costretti a rimanere a Roma con il caldo. Per molte famiglie, partire due mesi in vacanza è diventato un lusso, non tutti possono permetterselo. Così ammucchio anche quattro di loro, nella camera al piano di sopra. Io e Carlo cuciniamo tanto, ci piacciono le tavolate sotto il porticato, tra risa e schiamazzi. Però è un bel lavoro, gli adolescenti mangiano come lupi, e si fa spesa in continuazione, la cucina straborda di cibo piatti da lavare. Adesso invece sembra quella di una rivista di arredamento, ordinata e con in vista solo l’essenziale.

Ho trascorso tre giorni di piena pace. Poi l’altra sera ero in giardino a fumare una sigaretta, in compagina di un bicchiere di vino, e le stelle sopra di me e ho avuto un pensiero: “Cosa accadrà se un giorno si spegnesse la luce, e dovessi morire?”

Spero ci sia quell’altrove. Alcuni dicono che ci trasformiamo in energia, altri che tutto finisce come quando si spegne il telefono. Chi dice che ci reincarniamo, chi che saliamo in paradiso. Io mi avvicino all’ultima opzione, se non altro per una legge di equilibri, non tanto per me stessa, ma per la sofferenza dei bambini e degli innocenti, che devono riavere tutto quello che qui non hanno avuto.

Io mi ritengo fortunata, non posso lamentarmi, ma basta vedere un telegiornale o leggere un quotidiano per capire cosa c’è intorno a noi. Poi mi sono detta: “Quando non ci sarò più, cosa lascerò di concreto oltre ai ricordi, i miei vestiti e gli oggetti personali?”

Un tempo c’erano le lettere, quante se ne scrivevano, tra fidanzati, quante ne inviavano i soldati. Adesso si sta perdendo la memoria di tutto, si mandano solo messaggi sul telefono. Siamo cambiati, mio figlio nemmeno sa bene cosa sia una lettera. Allora mi sono decisa e ne ho scritta una lunga per lui e mio marito. Quando torneranno a casa penseranno che ero malinconica o depressa. Edoardo probabilmente dopo poche righe, la getterà a terra e si metterà a guardare Instagram, e penserà che lasciarmi sola non è stata una buona idea. Pazienza, l’importante è che non la metta via, per riaprirla magari un giorno. Carlo mi dirà che è bellissima, soprattutto perché sarà così grato per avergli concesso, senza musi lunghi, la sua vacanza ciclistica. Forse penserà che la menopausa mi ha resa strana, ma non me lo dirà, lo capirò dal suo sguardo. Poi infilerà la lettera nel cassetto del comodino, quello dove mette il passaporto e i biglietti dello stadio e la foto dei suoi genitori.

Il momento in cui scrivo l’ho sempre ritenuto importante, nulla viene distorto, e divento sincera come se mi stessi confessando. Ho anche avuto il coraggio di raccontare quello che mi è accaduto dodici anni fa. Forse perché circondata da tanto silenzio, lui mi è venuto in mente. Ho scritto di un incontro, capitato quando Carlo aveva cambiato lavoro e faceva su e giù tra Roma e Milano. Io ero arrabbiata con lui, preferivo rimanesse dov’era, fino a quando mio figlio non fosse stato più grande. Ma lui ha sempre visto la complessità del vivere, era convinto che un’opportunità di avanzamento di carriera, in una nuova azienda, fosse un’occasione irripetibile. Adesso mi rendo conto che aveva ragione, ma all’epoca io ero stanca e piena di dubbi su tutto, persino se avessi scelto la persona giusta per me.

Carlo ha sempre visto la vita senza tentennamenti, proprio per questo mi sono innamorata di lui. Mi ha amato quasi dal primo incontro, e mai, in nessun momento, ho pensato non continuasse a farlo. In quei giorni però ero stanca, perché insegnavo in una scuola dall’altra parte della città con alunni tremendi. L’ organizzazione familiare con un marito poco presente, era da vera equilibrista. Le nonne erano impegnate con mariti malati, e avevo avuto alcune esperienze disastrose con due baby sitter. Uscita da scuola, mi dirigevo nervosa alla metro, e mi sono sentita chiamare: “Anna”. Avrei riconosciuto la sua voce, anche in mezzo alla musica di un concerto: era Fabrizio. Siamo stati fidanzati tre anni. Ero innamoratissima, ma lui era un velista, e tra varie regate sempre in giro per il mondo, ci vedevamo poco. Esasperata dalla gelosia un giorno ho detto gli ho detto: “Ti lascio” e lui ha risposto: ”Ok” spezzandomi il cuore. Dopo tanti anni senza vederci, tipico di lui, mi ha invitato subito a pranzo. Io ho accettato con altrettanta facilità. Edoardo era all’asilo, Carlo a Milano. Mentre mangiavamo degli spaghetti alle vongole, mi ha detto: “Vieni via con me, ti porto in India, nel sud del paese, è bellissimo pieno di fiori. Ho lasciato la vela, compro stoffe, oggetti, poi li rivendo, sono
proprietario di vari punti vendita al centro Italia. Ora ho un casale in provincia di Viterbo, passo lì la maggior parte del tempo, ho anche l’orto”. Guardavo i suoi occhi celesti, due piccoli spilli penetranti, le spalle larghe, il volto segnato dal sole, ma sempre maledettamente bello. Mi ha preso la mano e mi ha citato un verso di una poesia di Pirandello: “L’amore guardò il tempo e rise, perché sapeva di non averne bisogno”.

Io ho sentito le mie guance farsi fuoco, il cuore liquefarsi, poi mi ha squillato il cellulare. Non riuscivo a prenderlo dalla borsa, tanto mi tremava la mano. Ho detto: “Pronto?” subito la voce squillante della maestra d’asilo: ”Signora, Edoardo scotta, ha vomitato, venga a prenderlo appena possibile”. Ho messo l’ultima forchettata in bocca, finito il mio bicchiere di vino bianco, trattenuto per un secondo negli occhi il suo volto, poi gli ho detto che mio figlio stava male e dovevo scappare. Non me ne sono mai pentita.

A 19 anni, più non ti senti amata e più non ti ami. A quell’età attendevo il principe che ti mi venisse a salvare, ed io l’avevo identificato in Fabrizio. Senza di lui mi sono immersa negli studi come una matta. Quando ho incontrato Carlo pensavo che nulla potesse cambiare, invece ho capito che la vita muta, quando meno te lo aspetti. Non è una gita in barca però, bisogna scegliere bene da che parte stare. Una volta ho scelto Carlo, poi in un altro momento Edoardo, e non me ne sono mai pentita. Questo ho voluto scrivere ad entrambi: per avere qualcosa di cui restasse memoria, in un mondo dove tutto si cancella con n click.

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