cultura

La caduta – un racconto di Benedetta Bindi

Puoi cadere nella polvere una volta, due volte o mille, ma se continuerai a rialzarti l’universo stesso si inchinerà a te.
Carmine Colella

“Papino adorato”. Ricordo è stata l’ultima parola che gli ho detto, prima che scomparisse dietro la porta di casa, in un giorno maledetto. Ero stata sdolcinata con
lui, perché aveva risposto: “sì”, al mio desiderio di ricevere delle scarpe da ginnastica nuove, con un’onda rossa. Mia madre era dubbiosa ad acconsentire alla mia richiesta. Odia per principio  gli oggetti di marca. Dice sempre: “Per i fessi che ci cascano, e fanno pubblicità gratis a dei miliardari”. Mio padre però aveva puntato
davanti a lei il suo grosso indice  sul pc, indicando i due  otto in latino e greco, che rivolgevano  su di loro tutta l’attenzione dello schermo, tanto erano belli. 

Avevo terminato il terzo anno di liceo classico, ancora una volta con la media migliore della classe. Lui aveva lasciato la scuola e sedici anni, ed era così felice nel vedere i miei voti, che mi si era appiccicata addosso anche a me la sua gioia, come fosse umidità  sui capelli, in un giorno di pioggia. Quando  è uscito per andare a lavorare, mi è rimasto un sorriso stampato in volto per parecchie ore. E’ evaporato, come non fosse mai esistito, appena è giunta quella telefonata. È  accaduto nel pomeriggio, quando ho preso il cellulare dalla borsa di mia madre, mentre lei stirava in cucina. Ho messo il vivavoce sul telefono, come lei mi ha detto di fare, e l’ho posato sul tavolo. Mentre sorseggiavo il caffè, ho ascoltato la voce di Augusto: “Sandra tuo marito è  caduto da un ponteggio, siamo al pronto soccorso del Gemelli, è vivo non ti agitare vieni”.

Erano i primi di giugno, non faceva ancora caldissimo, ma io sentivo il sudore scendere nella schiena, mentre seduta in auto, mia madre correva diretta al pronto soccorso. Ci siamo accomodate nella sala d’aspetto. Quando è  arrivato il dottore, lei si è messa da una parte a parlare con lui.  Io sono rimasta seduta sul mio
seggiolino arancione, toccavo i bordi di plastica, e pregavo che papino non avesse nulla di grave. Un bambino di tre anni continuava a piangere insistentemente per non so quale dolore. Il suono acuto della sua voce, temevo preannunciasse brutte notizie. Poco dopo infatti  mia madre mi ha fatto cenno di uscire. Si è  accesa una
sigaretta, ha tirato su con il naso, e con tutta fredezza che la contraddistingue mi ha detto: ”Giulietta, papà non è in pericolo di vita, si è solo  spezzato a metà”. Ho sentito le gambe molli, stavo per svenire, ma Augusto come un angelo è sbucato fuori non so da dove e mi ha sorretto.

Papà è caduto da un ponteggio alto sei metri, quattro anni fa, mentre portava dei secchi di calce. L’ho immaginato  scivolare con la sua tuta blu, come un omino dei
videogiochi per poi schiantarsi al suolo miliardi di  volte. Lui però non si ricrea pigiando: “start”, no ha più vite. La sua è una, vissuta quasi sempre senza assicurazione sul lavoro, con la busta paga che arrivava un mese sì, e uno no, e che doveva chiedere con gentilezza, come  mi ha raccontato dopo l’incidente.  Lui
sapeva che non aveva sindacato, tutela, e che se si fosse fatto male non avrebbe potuto fare  fatto nessuna denuncia. Ma io non ne ero a conoscenza, l’ho capito
quando mia madre mi ha detto di mentire. Prendendomi il volto tra le mani, dopo essermi  ripresa dal mio mancamento: ”Ascoltami Giulie’, non fa’ la ribelle,  se
qualcuno te lo chiede tu hai  visto cadere papà, mentre aggiustava il tetto di casa. La storia è chiusa,  intesi?”

Ma io pensavo a lui steso a terra come un insetto, le sue gambe che si muovevano un’ultima volta in uno spasmo, come quando d’improvviso va via la luce. Dovevo mentire per coprire chissà quale delinquente.

Sono scappata dal pronto soccorso in preda a uno scatto di nervi. Augusto mi ha rincorso, gli ho chiesto il piacere di lasciarmi andare. Ho camminato per ore, piangendo, con un senso d’impotenza verso un mondo che non avevo il  potere di cambiare. Ero arrabbiata anche con mio padre, per aver accettato condizioni di lavoro tanto aberranti.

Tornata a casa ho litigato con mia madre per questo. Lei mi ha risposto urlandomi che io non sapevo cosa voleva dire campare. Che loro avevano fatto grandi sacrifici per me, da quando ero nata, e io stavo lì a giudicare. Poi, guardandomi con i suoi occhi glaciali, ricordo mi disse: ”Sei nata tra quelli che devono lottare, ciccia, apri gli occhi, tuo padre se saliva ogni giorno su quei maledetti ponteggi lo faceva per farti mangiare. Chiudi la bocca adesso”.

Ho tatuata sul corpo, indelebile come una cicatrice mai rimarginata, la sua caduta.

Papà adesso non lavora, è sulla sedia a rotelle, ma sorride sempre. Stiamo spesso insieme, mamma ora non c’è  mai, ha trovato un impiego più  retribuito. Fa più  ore, praticamente torna a casa solo per dormire. Faccio io tutto quello serve per  lui, e poi ha tanto gente che gli vuole bene, e mi aiuta quando io non posso. Papà ripete spesso: ”Vai a studiare”.

Sono iscritta a  ingegneria, come Geppetto  spero un giorno di progettare a mio padre gambe nuove. Glielo dico e lui ride felice,  gli brillano gli occhi, come quando vide i miei otto in pagella, in quel giorno infelice. Aspetto il momento nel quale  gli darò io, una vita nuova, sì proprio come accadeva all’omino del videogioco dopo una caduta.

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