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La quercia chiese al mandorlo: parlami di Dio. E il mandorlo fiorì

Cambiano i tempi, le mode, i linguaggi, le sensibilità, non il cuore dell’uomo, sempre bisognoso di amare e di essere amato. A ogni generazione, gli uomini sperimentano, come se fosse la prima volta, il miracolo dell’amore. Perciò il mondo non potrà mai invecchiare; perciò nessuno ha il diritto di perdere la speranza.

Dio nessuno lo ha mai visto, Gesù, con la sua vita, morte e resurrezione, ha spostato il velo che lo avvolge e ci ha rivelato che è purissimo amore. Amore che ci attrae, ci abbaglia, ci seduce.

Nikos Kazantzakis: « La quercia chiese al mandarlo: parlami di Dio. E il mandorlo fiorì». La quercia impallidì. Parlaci di Dio, dissero i giovani a Francesco e il papa li amò. Gli spalancò il suo cuore e chiese che gli facessero spazio nel loro.

Non è vero che tra le generazioni si allarga il grande fossato dell’ incomunicabilità. Non è vero che i vecchi sono invitati a farsi da parte e togliere il disturbo. È vero, invece, che i giovani hanno sete di autenticità. Sono stanchi delle parole vuote di chi rimprovera, si lamenta, borbotta, dice e non fa. Vogliono ascoltare ed essersi ascoltati; credere ed essere creduti; amare ed essere amati. Pretendono – a ragione – di non essere ingannati.

Simone De Beauvoir: « Non ho mai rimpianto Dio: mi rubava la terra. Ma un giorno ho capito che rinunciando a lui mi ero condannata a morte». Che peccato questo grande abbaglio. Un Dio che ruba la terra agli uomini non esiste. Sbagliarsi su Dio, però, vuol dire sbagliarsi su tutto. Vuol dire correre il rischio di condannarsi e condannare a morte. Vuol dire precludersi la pienezza della vita.

Nietzsche: « Crederei solo a un Dio che sapesse danzare». Bellissimo. Anch’io, anche Francesco, anche i giovani abbiamo bisogno di un Dio gioioso, allegro, amante della vita. Certo, danza con chi danza, Dio; ma anche piange con chi piange, annega con chi annega, muore con chi muore. Il paradosso dei cristiani è questo: sempre in pace e sempre inquieti.

La settimana scorsa ho scritto una lettera al papa. Mi è sgorgata dal cuore mentre ero in montagna con un gruppo di ragazzi della mia parrocchia. Ho sentito il bisogno di dirgli – anche a nome dei miei confratelli – grazie “ perché ci inviti a puntare in alto, senza paure, senza ipocrisie, senza infingimenti. A non accontentarci dei soli fiori che sbocciano nelle nostre aiuole, ma ad allargare lo sguardo ai deserti, alle steppe, alle megalopoli, alle periferie, alle baraccopoli di questo mondo tormentato e bello”.

Maurizio Patriciello

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