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Rendete  a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio.

Il tema di questa domenica sta nella famosa dichiarazione di Gesù, diventata quasi proverbiale: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio”.

Tutto parte dal tributo (tributum capitis) che le provincie conquistate pagavano all’imperatore romano. Gli zeloti (rivoluzionari) si facevano un dovere religioso di non sottomettervi, mentre gli erodiani appoggiavano le forze di occupazione e i farisei (esperti di diritto), che si opponevano anche, vi si adattavano perché venisse loro garantita la libertà religiosa. La domanda posta a Gesù è quindi troppo insidiosa; e i rabbini la discutevano spesso nell’ambito della sinagoga. Si tratta in particolare di definire la liceità del tributo nel contesto della legge ebraica. Essi lo interpellano come “maestro” e gli riconoscono la dote della libertà di parola. Questa abile captatio benevolentiae rientra nel loro progetto di coglierlo in fallo nei suoi discorsi. Pensano di chiuderlo così in un dilemma: qualunque sia la risposta, si attirerà certamente l’ira di una parte dei presenti.

Gesù smaschera l’ipocrisia dei suoi interlocutori, che proseguono altri obiettivi sotto la copertura degli scrupoli religiosi. Egli li costringe a uscire allo scoperto: “Mostratemi la moneta del tributo”. Essa recava l’immagine di Tiberio Cesare, e nell’esergo l’iscrizione che lo proclamava Divus et Pontifex Maximus (Divino e pontefice massimo). Per Gesù basta rendere a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio.

Si falserebbe il pensiero di Gesù se si supponesse che il debito a Cesare si colloca nello stesso piano ed ha lo stesso valore assoluto e definitivo del dovere verso Dio. Non sono due realtà uguali e simmetriche. Dio è l’unico che si deve adorare con amore filiale. In altre parole, Dio e la sua regalità non entrano in concorrenza con il potere di Cesare, perché stanno ad un altro livello. Cioè si stimino le cose della terra per quel poco che valgono e si adempiano i propri doveri in base alle loro necessità. E bisogna sempre non dimenticare che l’essenziale è altrove, nella fedeltà al Padre celeste.

Si tratta della gerarchizzazione dei doveri: c’è la vita politica, e al di sopra, la vita religiosa, con il primato riconosciuto a Dio. Gesù, in nome dell’unica signoria di Dio, circoscrive l’ambito del potere politico, gli toglie la maschera della sacralità idolatrica e gli restituisce la sua laicità profana, come pure il suo ruolo reale e sociale. Inoltre, ogni decisione politica deve essere illuminata dalla parola di Dio, perché a Dio appartiene ogni cosa, anche Cesare. Quante volte Cesare (il potere politico), ognuno di noi, tentiamo di erigerci in potere assoluto senza o contro Dio, e pretendiamo qualcosa che non ci è dovuto? Purtroppo un uomo che si traveste da Dio, da assoluto, al massimo fa ridere. Infatti, quando Dio viene presentato nelle vesti e negli atteggiamenti di Cesare o di un individuo, questo diventa sempre uno spettacolo ridicolo ed un blasfema.

Non si può, d’altra parte, ridurre la sentenza di Gesù sul tributo a Cesare per giustificare la distinzione o separazione tra Stato e Chiesa, tra ambito politico e quello religioso. Questa lettura sarebbe riduttiva ed anacronistica, perché Dio non è la Chiesa, e Cesare nella concezione dell’impero romano non corrisponde allo Stato moderno.

Un’ultima cosa. Si potrebbe anche comprendere il restituire a Dio le cose di Dio in un altro senso. Gesù ha detto: Quello che fate al più piccolo tra voi, lo fate a me. Così ciò che è dovuto a Dio riguarda anche l’attenzione ai poveri, agli esclusi, agli sfruttati, in breve agli schiacciati sotto tutte le forme di oppressione e sofferenza.

Don Joseph Ndoum                                    Iª lettura Is 45,1.4-6 dal Salmo 95 IIª lettura 1Ts 1,1-5 Vangelo Mt 22,15-21

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