cultura

Mia – un racconto di Benedetta Bindi

Quando l’ho conosciuta, Mia aveva tredici anni.

Esile, mora, con due lunghe trecce che portava con naturale disinvoltura, mentre le sue compagne già si atteggiavano a donne fatte.

Forse mi piaceva proprio per questo: perché era diversa.

E perché era bella. Troppo bella. Al punto da togliermi il sonno.

L’unico suo difetto — se così si può chiamare — lo portava con orgoglio: un mignolo del piede destro cortissimo, dalla forma stretta all’attaccatura e poi gonfio come un palloncino. Lei, incurante, indossava sandali già a maggio e lo mostrava come se nulla fosse.

A me, ogni volta che lo guardavo, si stringeva il cuore.

Era brillante in tutte le materie. Figlia unica di due professori universitari, che per anni le avevo invidiato: i  genitori perfetti, che l’ aiutavano nei compiti, che la portavano a danza, a inglese. Io ai miei nemmeno potevo domandare cosa si mangiava a cena, figurarsi farsi accompagnare a fare sport, e farsi risentire la lezione. 

I miei però mi amavano di un amore sano, correvano tutto il giorno solo per arrivare a fine mese, ma non mi manipolavano.  I suoi nel tempo ho capito che erano tiranni travestiti da intellettuali, con abiti eleganti e un lessico invidiabile.

Ho conosciuto la loro figlia all’ultimo anno delle medie.  Prima vivevo a Cisterna di Latina. 

Poi la fabbrica dove lavorava mio padre si è ingrandita,  ha  preso una stabile sulla via Tiburtina, e lui insieme ad altri operai è stato trasferito lì.

La  nostra scuola invece  si trovava in Prati, dove ogni giorno andavo in macchina con mia madre, perché lei aveva trovato lavoro come :“donna tutto fare” da una vecchia signora abbiente. 

I primi tempi mi sembrava tutto straordinario nella Capitale — persino il traffico — e arrivavo a scuola con il sorriso.

Mia, invece, era spesso malinconica.

Più la osservavo, più non riuscivo a capire cosa potesse esserci dietro quello sguardo assorto. Aveva tutto: intelligenza, bellezza, soldi.

Mi sono iscritto al liceo classico, più per rivederla che per convinzione. Non siamo capitati nella stessa sezione, ma almeno ho coltivato la nostra amicizia. Poi è accaduto l’imprevedibile, al terzo anno ad una festa mi ha baciato. 

Dalla felicità non mangiavo più, non dormivo. Mi bastava lei.

Durò pochi mesi.

 Mia un giorno mi disse che era meglio lasciarci, perché lei a breve si sarebbe trasferita a Trieste per motivi di lavoro di suo padre… 

Le chiesi spiegazioni, si guardò la punta delle scarpe — nuove — e arrossì.

Non serviva altro: io ero figlio di un operaio. Lei no.

In qualche modo credo che lei si sentisse amata dai suoi. Il suo fare tutto come loro le dicevano di fare era un tristissimo atto di devozione, che non ho mai capito, fino a quando, non vedendola più, ho smesso di pensarci.

Quando ero a casa da solo, mi buttavo sul letto, in un urlo che ricordo prolungato, ferino. Tensione che si spezzava e poi fuoriusciva invocando il suo nome.

Mi sono domandato spesso, se nel tragitto verso casa, il giorno nel quale mi aveva lasciato,  avesse per qualche secondo cambiato idea.

Forse all’altezza di piazza Cavour? O più giù, verso lo stadio? Magari rientrata, ha sorriso ai suoi genitori, dicendogli che mi aveva lasciato, e poi si è chiusa in camera a piangere?

Forse. Lei mi diceva di amarmi, fingeva?

A scuola, il giorno dopo, è stata fredda.

E così fino alla fine dell’anno.

Poi  è partita.

Non ci siamo più visti per dieci anni.

L’altro giorno, però, in una libreria in centro, una donna dai capelli lunghi, labbra piene, occhi tristi e truccati, mi è venuta incontro:

— Ciao — ha detto.

Io sono rimasto immobile, e ho guardato il suo volto per un po’, mentre il libro che avevo in mano mi cadeva sui piedi.

— Non mi riconosci? — mi ha detto, raccogliendolo.

Mi è tornato tutto in mente insieme, come un calore improvviso, di una tale intensità che  il mio cuore che da parecchio tempo batteva più,  d’improvviso pareva un  tamburo allo stadio. 

— Ciao — ho risposto.

Lei ha iniziato a raccontarmi molte cose, con una loquacità che non era sua.

— Usciamo — le ho detto, come fosse un ordine, stupendomi anch’io del mio tono deciso.

Siamo andati in un bar lì vicino.

Così davanti una tazzina di caffè,  mi  ha raccontato di una convivenza finita male. L’unica storia importante che aveva avuto. Poi  mi ha guardato così intensamente che ho dovuto tossire: mi sentivo soffocare.

 “Un giorno che stavo veramente male, ho  capito che dovevo tagliare i fili che mi  legavano ai miei, i loro commenti subdoli mi hanno condizionato tutta la vita. Ho lasciato Marco a causa  loro e non solo lui… Potevo sottrarmi ai miei, solo  togliendo il mio corpo con un gesto definitivo. Ho trovato  un lavoro a Roma, in una casa farmaceutica, qui sto bene”.

Ero muto e le sorridevo.

Serravo le labbra perché volevo dirle solo: “Ti amo ancora”.

Lei parlava,  rideva, si passava una ciocca di capelli dietro l’orecchio, era emozionata lo capivo. Ho pensato che il tempo a volte non separa — prepara.

E che certi giri immensi che la vita ci costringe a fare servono solo a riportarci esattamente dove dovevamo essere.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *